ANNO 14 n° 116
La Trasversale nella
valle selvaggia
Un'escursione della Valle del Mignone, che dovrebbe ospitare l'ultimo tratto
della Orte-Civitavecchia: campi, pascoli e casolari in una zona piuttosto isolata
29/02/2016 - 02:01

di Andrea Arena

MONTE ROMANO – Qui di verde ce n’è tanto. Campi e prati d’erba che col vento diventano mare, giusto per citare la Pfm. E poi ulivi, alberi più grandi, canneti, la ferla che cresce ovunque, e che dà funghi buoni. Pecore, cavalli, vacche che pascolano, ancora nel verde di questa primavera infinita che è l’inverno 2016.

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Verde. Blu, Viola. Colori che s’intrecciano e che si spalmano sul futuro di una strada che è anche il futuro di un territorio, questo. La Tuscia, e buona parte dell’Italia di mezzo, fino all’Umbria e alle Marche, fino alla Romagna e addirittura in Veneto (perché il punto di arrivo è Mestre) è aggrappato a queste sottili distinzioni cromatiche, quelle dei tracciati per il completamento della Trasversale Orte-Civitavecchia. Quattro corsie che dovrebbero unire i due mari, il Tirreno e l’Adriatico, altrettante autostrade (la nuova Tirrenica e la vecchia, cara, autostrada del Sole), un paio di hub merci strategici come il porto di Civitavecchia e l’interporto di Orte. Gomma, ferro, passeggeri: tutto passerà di qui, in un modo o nell’altro. Tutto passerà da questa valle incantata che è la valle del Mignone, sede deputata ad ospitare il tracciato meno costoso, forse il più comodo, quello già approvato dall’Anas (la società che ha fatto il resto della Trasversale, e che ce lo ricorda firmandosi ogni cavalcavia, ogni svincolo). Il tracciato verde.

Certo, non tutti sono d’accordo. Propongono altri tracciati: il viola, il blu. Sicuramente più costosi, ma che non vanno ad intaccare il luogo ameno dove il Mignone corre quasi sempre placido, salvo qualche sfuriata quando si carica d’acqua. Ecco allora il rischio idrogelogico – le alluvioni e le frane -, che si miscela all’impatto ambientale su un zona dove la flora e la fauna abbondano. E visto che siamo nel cuore dell'antica patria etrusca, stai a vedere che scavando non venga fuori pure qualche reperto, qualche tomba, qualche coccio. Senza dimenticare gli interessi di chi qui ci vive (pochi: casolari isolati, zero punti d’aggregazione, una comunità agricola diffusa) e di chi ci lavora. E poi, poi naturalmente bisognerà mettere in conto le proteste di quelli che sono per il no a prescindere: gli ambientalisti integerrimi, i luddisti, i nipotini di coloro che, negli anni Settanta, fecero la guerra al nuclerare, trenta chilometri più a nord (centrale di Montalto di Castro) e i figli di coloro che, un decennio fa, si sono cimentati nella lotta alle ciminiere – i moderni mulini al vento – di Civitavecchia.

E proprio il camino della centrale di Torrevaldaliga nord spunta alla fine di questa escursione nella valle del Mignone, un po’ avventurosa e un po’ scettica, animata dall’inguaribile istinto di vedere di persona come sono le cose.

Si parte da Monte Romano, la strada Valle del Mignone dovrebbe essere una strada provinciale. Così dicono le mappe. Eppure, è tutta una buca e per un buon tratto, mentre si scende giù per i costoni, non è neanche asfaltata. Pozzanghere abbastanza grandi da farci allenare Paltrinieri, d’inverno; d’estate invece sarà tutto un polverone. Comunque, si viene giù piano, schivando i cani dei pastori e gli sguardi straniti dei pastori stessi. Sul primo ponte, non appena ritorna l’asfalto, si scende. I pali della luce friniscono al vento, qualche folaga vola via dal greto del fiume, altre pecore in lontananza, i funghi gialli del metanodotto che dicono che qui si è già scavato, che non è tutto vergine come sembra, non sono mai vergini come raccontano.

Ancora avanti, verso il mare che ancora non si vede e neanche si sente: casali abbandonati, aziende agricole di piccole dimensioni, aratri ed erpici arrugginiti, un pick up che viene in direzione opposta, addirittura un piccolo B&B. Nessun villone holywoodiano, di qualche riccone (?) locale che magari avrebbe interesse ad ostacolare la superstrada: era girata pure questa, di voce maliziosa, nei giorni del delirio.

Di là del fiume, tra gli alberi, un vecchio ponte arrugginito, si vedono altre case isolate, qualche capannone, campi di carciofi e chissà di cos’altro pieni di cornacchie e gazze e passeri, pompe idrauliche dappertutto, pure arruginite. Più in alto, tra le nuvole, i monti della Tolfa, un’altra provincia, sempre che le province abbiano ancora senso.

Poi la valle si schiude, verso il mare, e arrivano segni di una nuova agricoltura: un paio di serre, un agriturismo coi cavalli, e infine l’Aurelia, la vecchia Aurelia diventata autostrada. Ci si immette nel traffico su una rampa d’accelerazione ampia e lunga, la famosa viabilità secondaria per la quale i cittadini (e il sindaco di Tarquinia Mauro Mazzola) tanto si batterono con la Sat, l’Anas della situazione.

Mentre si torna verso Viterbo viene da pensare se valga davvero la pena fare una battaglia per salvare questa valle, come gli inglesi si chiedevano se valesse la pena morire per il Belgio, cent’anni fa. E le domande aumentano: possibile che il progetto dell’Anas, disponibile pure on line, sia qualcosa di mostruoso? Siamo nel 2016, anche l’Italia del tanto cemento e dei pochi scrupoli sarà uno stereotipo da archiviare, no? I cavalcavia (tanti) e la galleria che dovrebbero essere realizzate qui saranno fatte a regola d'arte? Facciamo infrastrutture in tutto il mondo, del resto, da Panama a Mosul, e le sappiamo fare bene: a casa nostra no?

Due minuti e si cammina già sull’Aurelia bis, ancora in direzione Monte Romano. Strada stretta, trafficata anche oggi che i mezzi pesanti non possono circolare. Ogni pochi chilometri, sul bordo della strada, una lapide, un mazzo di fiori, una foto scolorita di qualche ragazzo morto. Anime innocenti sulla coscienza di una Trasversale che ancora non c’è, e vai a capire se e quando ci sarà – fino al 2018 di via libera non se ne parla, ha detto il ministro Delrio – e vai a capire che colore avrà. Verde speranza. Blu mare. Giallo gelosia. Viola d'invidia.





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