ANNO 14 n° 120
''Alla Fiordaliso pazienti non autosufficienti''
La struttura di Gradoli nemmeno autorizzata come casa di riposo
20/12/2017 - 07:25

GRADOLI - Nessuna autorizzazione da parte del Comune di Gradoli per esercitare come casa di riposo, eppure all’interno della struttura ''Il Fiordaliso'' soggiornavano decine e decine di anziani. Alcuni dei quali neppure autosufficienti e con patologie psichiatriche.

Doveva essere il giorno delle grandi difese, ieri, davanti alla Corte d’Assise viterbese, per il processo a carico dei gestori dell’ospizio di Gradoli, Franco Brillo, i suoi due figli Federico e Maurizio, e i medici Ugo Gioiosi e Lucia Chiocchi. Invece nessun grande colpo di scena. Nessuna significativa rivelazione, durante le loro deposizioni in aula. Secondo la procura viterbese devono rispondere, a vario titolo, di abbandono di incapace aggravato, di appropriazione indebita, di falso e di somministrazione di farmaci scaduti.

Ma loro sono fermi nelle loro posizioni: ''Ho aperto la mia struttura prima a Castel Giorgio, poi ho deciso di trasferirmi a Gradoli – spiega Franco Brillo - avevo le autorizzazioni della Asl. Pensavo bastassero, in più l’ex sindaco mi aveva promesso che quelle del Comune sarebbero arrivate subito dopo le festività di Natale del 2008''. Una leggerezza che gli è costata invece una serie di ordinanze da parte del tribunale e ora, un processo. Perché all’interno di quell’ex albergo, trasformato in casa di riposo non autorizzata, sarebbe morti, secondo l’accusa, otto anziani in circostanze sospette tra 2009 e il 2010.

''Si è parlato di lager, di casa di riposo degli orrori, ma avevano tutto ciò di cui avevano bisogno: una stanza con bagno privato, una sala da pranzo e un bel porticato con vista sul lago di Bolsena. In più ogni mercoledì veniva un medico a visitarli e degli infermieri a portar loro le medicine di cui avevano bisogno''. Assistenza pagata privatamente dai gestori, dato il mancato accreditamento al sistema sanitario nazionale della struttura. ''Nessuno si è mai lamentato con me di quello che offrire nella mia struttura''. Né familiari, né pazienti. Alcuni dei quali, affetti da patologie psichiatriche, avrebbero avuto bisogno di assistenza e cure specifiche.

Eppure un documento a firma della dottoressa Lucia Chiocchi li delineava tutti come persone perfettamente capaci di intendere e di volere. Da qui l’accusa di falso, formulata per lei dalla Procura.

''Non riconosco come mio quel documento – sbotta in aula – il timbro e la firma mi appartengono. Ma il contenuto è troppo grossolano e impreciso per essere stato redatto da me''.

Si tornerà in aula il 15 gennaio.

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