ANNO 14 n° 120
Tre ordigni che potevano far molto male a scuola
Di fabbricazione italiana e inglese
25/09/2013 - 04:00

VITERBO – In mezzo a diciannove bombe finte, ce n'erano tre vere. “Che potevano esplodere e che potevano far male”, come spiegheranno poi gli artificieri. Erano in una scatola di legno, in un magazzino della scuola elementare Alessandro Volta, al Pilastro. Sono state scoperte dal personale dell'istituto che ieri mattina, verso le undici, stava sgombrando lo scantinato da vecchi banchi e cattedre ormai marce: le grandi pulizie di inizio anno. Viene subito avvertita la direttrice scolastica, Francesca Sciamanna: “Ho visto gli ordigni, sembravano veri”. La preside avverte i carabinieri, la prefettura, il Comune. Segue la procedura con freddezza, fa uscire i ragazzi dall'altra parte, non sul portone che dà su via Alessandro Volta ma su quello in via Minciotti, più lontano e tranquillo. I militari dell'Arma arrivano, vedono, decidono: scuola chiusa, sigilli e cartello di pericolo. Aspettiamo gli artificieri.

Inizia un lungo pomeriggio di attesa, e di ipotesi. I nastri bianchi e rossi di sicurezza, e il presidio degli agenti della polizia locale, evitano che qualcuno possa entrare per sbaglio. Si fanno ipotesi: “Potrebbe essere materiale didattico, di quelli che si usavano una volta, dopo la guerra, per spiegare ai bambini cosa non dovevano assolutamente toccare”, è la congettura di qualcuno. Che potrebbe anche essere logica: il Pilastro è stato costruito nel Dopoguerra, con parecchio materiale prelevato dalle macerie dei quartieri bombardati nel centro storico. Tutti i bambini potevano, allora, imbattersi in una granata inesplosa, in un proiettile d'artiglieria, in una mina: dovevano essere messi in guardia, i piccoli.

Alle cinque e mezzo arrivano gli artificieri del sesto reggimento del Genio, da Roma, scortati dai carabinieri. Mentre scendono dal Fiat Scudo d'ordinanza e attraversano la strada, c'è qualche genitore ansioso che accosta l'auto e chiede in giro se domani la scuola sarà aperta. “Qui forse c'è una bomba, signora, dia uno sguardo al sito internet più tardi”. E si tolga dalle scatole, please.

Sì', la bomba è vera, e ce ne sono tre, in mezzo ad altre diciannove finte, innocue imitazioni. ''Bombe a mano. Ordigni bellici”, dice il maresciallo quando i suoi tornano dalle viscere della scuola col bottino saldamente in mano. Sono stati dentro meno di un quarto d'ora: per loro è routine, loro che vennero a Viterbo anche per il “Bomba day”, nel maggio 2007, quando mezza città rimase col fiato sospeso per la rimozione di un grande ordigno inglese alla Capretta. Questa, tutto sommato, è robetta. Non per la preside Sciamanna, che sbianca e magari pensa a quello che avevano lei e i suoi ragazzi sotto il sedere, forse da anni. Per fortuna, adesso è finita. E oggi la scuola riaprirà regolarmente.

Finita ancora no, visto che gli artificieri ripartono verso la Tuscanese, e la cava di Chiavarino, un posto brullo che sembra il pianeta Marte e che ha ospitato di buon grado tanti brillamenti di ordigni, anche molto più importanti di questi. I militari trovano subito il posto giusto, danno giù di vanga, srotolano la miccia e poi corrono via, al riparo. Boom. Il colpo secco e la terra che vola: le due Srcm 35 (in dotazione al Regio esercito italiano dal 1935, appunto) e la granata al fosforo N77, inglese, tutte e tre residuati della Seconda guerra mondiale, vanno in polvere. “Sono armi d'attacco, che avevano il compito di stordire, più che uccidere – spiegano ancora i militari – In un ambiente chiuso avrebbero potuto fare bei danni, rompere vetri e timpani e poi chissà”. Viene su un brivido a pensare a tutti quei ragazzini che hanno vissuto ore e giorni e anni così vicino a degli oggetti di morte.

Adesso tocca ai carabinieri cercare di spiegare il perché le bombe siano arrivate lì, dentro una scuola elementare: l'unica cosa sicura è che qualcuno ce l'abbia portate. Il quando, invece, è un mistero: subito dopo la guerra, per far sparire vecchi souvenir, o magari più tardi, da terroristi braccati? O ancora: da delinquenti comuni? Qualcuno si ricorda ancora che la Banda della Magliana aveva la sua armeria più sicura in un magazzino del ministero della Sanità. Dove nessuno avrebbe mai pensato di cercare.





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