ANNO 14 n° 117
''Io strozzino? E' lui
il delinquente''
Giro di usura a Canepina, lo sfogo in aula di uno degli imputati
18/10/2016 - 19:41

VITERBO - ''Quell’uomo non ha mai fatto un giorno di lavoro in vita sua, andava sempre a mignotte, io invece ho lavorato una vita e mai un giorno di vacanza...''. Più che una difesa sembra essere uno sfogo in piena regola quello di A.Z., accusato di usura ed estorsione. Accanto a lui, alla sbarra altre tre persone, un uomo e due donne, che dovranno rispondere a vario titolo degli stessi reati.

L’inchiesta, che li ha visti coinvolti, è iniziata nel 2010 a seguito della denuncia di T.C., un artigiano di Canepina, che portò alla luce un presunto giro di usura di cui sarebbe caduto vittima anni prima. L’uomo in difficoltà economiche, avrebbe iniziato a chiedere prestiti, prima ad amici e famigliari, poi alle rete di strozzini che l'avrebbe rovinato. Piccole somme di denaro, sui cinquemila euro, ma con tassi d’interesse elevatissimi, arrivati fino al 20.000%. Una situazione economica e psicologica non più sostenibile per l’uomo, tanto da portarlo a un passo dal suicidio. Da lì la richiesta di aiuto alle Fiamme Gialle.

Dai suoi racconti sono nati in procura due fascicoli differenti. Da una parte, quello che oggi vede imputate le due coppie per usura ed estorsione, dall'altra il ben più articolato e ampio procedimento per associazione a delinquere che ha coinvolto 15 persone. Imprenditori, artigiani e liberi professionisti di Canepina, tutti rinviati a giudizio a luglio di quest’anno dal gup Stefano Pepe, con l’imprenditore costituitosi parte civile. Ma di questo se ne parlerà a dicembre. Secondo la versione dell'imputato le cose non sarebbero andate come ricostruite finora.

''Nel 2007 – spiega A.Z. - lavoravo come ragioniere per una ditta di lavorazione marmi di Soriano che non navigava proprio in buone acque. Ci venne presentato questo T.C. perché doveva eseguire dei lavori nel nostro locale a un prezzo di favore. Cosa che poi non avvenne più''.     Da quell’incontro nacque però una ''collaborazione'' tra gli uomini della ditta e l’imprenditore non proprio limpida.''Visto che l’azienda versava in una pessima situazione economica - prosegue il ragioniere- e anche lui aveva i suoi motivi, ci accordammo per scambi di assegni per false fatture, una da 12mila e l’altra da 24mila euro, in modo da recuperarci sopra l’Iva''. Soldi, restituiti dall’imprenditore agli uomini, che sarebbero finiti sui conti in banca di mogli e suocere, per non insospettire le Fiamme Gialle su quello strano giro di assegni.

Un sodalizio per truffare lo Stato che si sarebbe rotto dopo la mancata restituzione di alcune somme. '' 'Ce li restituirà', diceva C.F. il titolare della ditta, ma non aveva ancora capito che quello era un criminale'' continua l'uomo. E la beffa finale, con le accuse di usura e il calvario del processo arrivato fino ad oggi.

''Ho detto davanti ai finanzieri che 'a quel bastardo gli stacco la capoccia'? E che dovevo dire dopo un fatto del genere? Sono frasi di circostanza dettate dalla rabbia, io non l’ho mai minacciato. Addirittura una volta mi ha detto: 'mi hai fatto più bene te che mio padre' ''. Prossimo capitolo della vicenda, 16 maggio 2017.






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