ANNO 14 n° 111
Un viterbese a New York Quella sporca dozzina
>>>> di Andrea Bentivegna <<<<
01/08/2014 - 02:01

di Andrea Bentivegna

NEW YORK - Nel mondo anglosassone il ''monday night'' è la partita serale, quella di cartello, che per motivi televisivi viene posticipata al lunedì, e questo lunedì non faceva eccezione, almeno per me, che per giorni ho atteso di scendere finalmente in campo, anni dopo la mia ultima partitella a calcetto credo.

Appuntamento con il mio amico a Union Square e quindi insieme, dopo una splendida passeggiata attraverso il mitico Greenwich Village, arriviamo al campo sulle rive del fiume dominato dalla skyline di dowtown. Forse il più bel posto dove mi sia capitato di dare calci ad un pallone. Probabilmente l'ultimo in cui potrò farlo.

Con il mio amico arriviamo a bordo campo, lui posa a terra la borsa e inizia a riscaldarsi, io evidentemente devo averlo osservato interdetto perché mi ha subito chiesto il motivo della mia perplessità, allora domando con imbarazzo ''Scusa, dove sono gli spogliatoi?'' e improvvisamente vedo il suo sguardo illuminarsi. ''Scusa – mi risponde - ho dimenticato di avvertirti, qui non ci sono gli spogliatoi''. Ora, voi, al mio posto, sapendo di andare a giocare una partita di calcio e sapendo che due ore più tardi sarete sudati fino ai piedi, cosa scegliereste di indossare? Io avevo optato per delle impresentabili mutande sperando che questa occasione sarebbe stata il pretesto che aspettavo da tempo per buttarle.

Rapidamente cerco di cambiarmi e indossare i pantaloncini senza dare nell'occhio, ma proprio nel mezzo delle operazioni una comitiva di ragazze che aveva appena finito di allenarsi (e certo, perché solo qui il calcio è popolarissimo tra le ragazze, maledizione) mi passa a due metri commiserandomi con lo sguardo del tipo ça va sans dire.

Poco dopo, la situazione si fa, se possibile, ancor più grottesca. Mi ritrovo in squadra con altri ceffi piuttosto inquietanti, di cui a tutt'oggi non so ancora il nome, che parlano un inglese da rapper consumati. 'Back, on the right side' mi dice il carismatico capitano che per tutta la partita mi chiamerà ''dude'' ( ''coso'' ndr). Allora capisco che giocherò terzino destro.

Alzo lo sguardo per capire la disposizione tattica della squadra e qualcosa non mi torna. E lo credo bene, siamo in 12 in campo. Domando al mio amico come sia possibile e lui mi racconta che qua si gioca 12 contro 12, anzi, stasera i nostri avversari giocheranno in 13, così, mi dice, si corre meno e non c'è bisogno di cambi. Non fa una piega.

Fischio di inizio e cerco con l'occhio il mio avversario diretto che marcherò per tutta la partita. Eccolo qui, avrà non meno di quarantacinque anni, burbero e completamente pelato con la maglia di Ronaldo, il fenomeno brasiliano, non quello portoghese. Prima azione sulla mia fascia, palla a Ronaldo che mi dribbla secco come fossi io il più attempato dei due, allora lo inseguo e come una carogna gli rifilo un calcione sulla caviglia (la palla non era francamente alla mia portata) lui si rialza, mi guarda sorridendo e con la mano finge di spararmi.

La partita prosegue, per mia fortuna, e i miei compagni, intuendo il mio palese spaesamento, evitano il più possibile di passarmi la palla, corro tanto, di solito inutilmente, quasi sempre semmai rincorro Ronaldo, che azione dopo azione ho ormai imparato a conoscere e contenere giocando di anticipo. In attacco abbiamo un forte centroavanti che realizza tre reti e il risultato sembra ormai al sicuro, si aspetta solo la fine della partita e quando sento il fischio dell'arbitro mi lascio cadere a terra esausto, sfinito ma contento di essere ancora intero all'epilogo. Mi rialzo e non capisco cosa stia succedendo: Ronaldo caracolla ancora a pochi metri da me e come lui tutti gli altri inseguono il pallone. Il fischio che avevo sentito era solo un calcio di punizione, non la fine della partita, in effetti nella realtà erano trascorsi solo ventidue minuti dall'inizio, ma evidentemente la carenza di ossigeno aveva, nella mia mente, accelerato la realtà convincendomi di aver giocato per i canonici novanta minuti.

I successivi settantacinque minuti saranno scandalosamente penosi e i ricordi di quanto accaduto sono davvero confusi, quasi onirici. Mi hanno detto che alla fine abbiamo vinto 5-3 e che mi sono battuto con grande agonismo, frase che nel dialetto calcistico corrisponde a un eufemismo per dire che hai fatto schifo. Sono passati ormai tre giorni dalla partita e ancora oggi camminare anche per pochi metri è una fatica inenarrabile per me e per i miei muscoli ancora indolenziti. Per fortuna che qui si gioca in dodici per correre meno.

 


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