ANNO 14 n° 115
Punk Forever Santa Rosa? Conta più del Natale
09/09/2013 - 01:06

di Massimiliano Capo

Premessa filosofica: a me piacciono le cose che piacciono a tutti. Tipo la musica di merda i film di natale le battute a doppio senso i discorsi sul calcio e la fica l’intimo leopardato i porno amatoriali le cene al mare le serate senza fare nulla e anche le mattine e i pomeriggi scialli passati sul divano a leggere cose meravigliosamente inutili. Insomma non amo l’originalità a tutti i costi le cose pesanti perché pesante è bello l’io non sono come gli altri e altre consimili amenità.

Insomma per fare la sintesi come nei manuali che si rispettino preferisco Rimini all’isola deserta con una compagnia di attori di avanguardia. Perché l’avanguardia va benissimo ma ogni tanto due palle.

Ora cosa c’entra questa premessa con questa cartella e mezza dedicata a Santa Rosa? C’entra, perché tra le cose che non amo c’è anche il che palle la Macchina, il che palle ‘sta festa, il che palle ‘sta sagra and so on.

Perché a me invece la Macchina di Santa Rosa piace proprio perché tutto si ferma, perché, come scrive la mia amica Irene, Santa Rosa è più del Natale per un viterbese, è più del capodanno, visto che il tempo da queste parti si scandisce con un prima e un dopo Santa Rosa.

E quel dopo Santa Rosa corrisponde alla fine dell’estate, del tempo del riposo; corrisponde al ritorno al tempo del lavoro e degli affanni quotidiane.

Dopo la magica sospensione di due giorni, una comunità raccolta intorno alla figura di una santa poco più che bambina torna ad occuparsi di sé e delle sue cose fino al prossimo tre settembre, fino al prossimo anno.

Senza scomodare Sant’Agostino ‘sta storia del tempo è una delle più affascinanti che la vita cosciente ci ha consegnato e Santa Rosa serve anche a questo: a scandire con il tempo che sentiamo nostro la nostra esistenza.

E non c’entra la fede e non c’entra nemmeno la storia. Se per fede e storia intendiamo il significato che normalmente attribuiamo a questi due termini.

In tedesco questa cosa che secondo me è Santa Rosa e la sua Macchina la chiamano heimat che sta per il luogo dove ci si sente a casa propria, la patria degli affetti, dell’intimità del cuore.

Ecco per me la Macchina è proprio questo: è l’intimità di una appartenenza condivisa ad una cultura che ha radici profonde che oltrepassano limiti e confini fisici e che stanno dentro quel flusso di energie che tiene insieme un territorio che per tutto il resto è sanamente diviso.

È una comunità, che nella diversità delle scelte quotidiane, sa, per quella sera, sospendere le ambasce e anche le gioie del proprio cuore per stare insieme e guardarsi negli occhi e scambiarsi un segno di pace e gioire insieme. Ci si riconosce, ci si saluta anche senza mai averlo fatto prima, come quando per caso incontri un viterbese all’estero e magari lo hai visto mezza volta al supermercato e lo fermi e lo saluti e glielo dici che sei come lui e ti sembra normale.

Ecco Santa Rosa e la sua Macchina sono questo: il profumo forte di una tradizione che viaggia per i mille anni e che ha intatta la forza di tenere insieme una comunità.

E poi l’immagine di questa Santa poco più che bambina che sta lì, in cima alle mura, sulla porta principale di accesso alla città e che con lo sguardo sereno e la croce in mano si offre a protezione della città, a protezione di una porta aperta, ospitale.

Io me la immagino col sorriso che chissà se avrà mai avuto nella sua vita terrena e rileggo le storie semplici dei suoi miracoli, le rose, il pane, l’acqua, la brocca, l’attenzione riportata in tutti i racconti intorno alla sua breve esistenza terrena per i poveri come una indicazione. Un segnavia.

Insomma, i gesti della vita nella sua dimensione brutalmente primaria e poi quelle rose, quel pane da nascondere per sfamare altre bocche che si trasforma in rose e che a me racconta un’altra storia. Perché mi piace pensare che il pane si sia trasformato in rose non a caso.

E lei, la Santa morta poco più che adoloscente, radicale nelle scelte come lo fu San Francesco, a me ricorda anche le figure che ho care di più tra le altre: Simone Weil, Etty Hillesum, Dietrich Bonhoeffer e per una strana associazione mentale che non so ben spiegare anche Ernst Junger e il suo anarca, il ribelle che fa della sua purezza d’animo la cifra attraverso cui compiere le scelte giuste per la vita.

E la Weil e la Hillesum e Bonhoeffer accomunati da un tragico destino di vita vissuto tutto dentro l’epoca dei totalitarismi e la forza salda delle scelte inevitabili e una fede profonda ma faticosa e impegnativa. E soprattutto tutta dentro il gorgo incasinato della esistenza terrena.

Ecco, dentro quel campanile di trenta metri che cammina per le vie del centro, dentro la fatica sui volti dei facchini, dentro le grida di noi viterbesi, dentro gli evvivasantarosa e la sfinente musichetta che accompagna il trasporto, io vedo questo. La scelta di un popolo di riconoscere l’altro nella libertà della sua esistenza ma dentro un sentire comune che ce lo fa sentire amico e fratello. Per una notte, forse, ma fratello. E quando si apre uno spazio di riflessione comune, quando ci si sente fratelli anche solo per quelle tre ore del trasporto, poi non è mai per una notte e non è mai per quelle tre ore e basta. E qui sta la forza della piccola Santa.

Evvivasantarosa.





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