ANNO 14 n° 116
Punk forever, Tutta colpa di un cappero
>>>>> di Massimiliano Capo <<<<<<
16/12/2013 - 02:01

di Massimiliano Capo

Tutta colpa di un cappero.

Perché, può sembrare strano, ma anche un cappero ha la capacità di far viaggiare la (mia) testolina.

Basta un cappero verde, piccolo piccolo, come quelli che ho mangiato a Linosa in una meravigliosa vacanza estiva di qualche anno fa; Linosa è uno scoglio gettato nel mare, da girare in motorino e intorno solo capperi e acqua bluissima e sole e pietre a picco e poco altro. Nel mio caso: un’ustione dolorosissima per due minuti passati al sole svestito e una indigestione devastante smaltita sul traghetto di ritorno.

Ma se non ci fossero queste piccole sfighe quotidiane non ci sarebbe nemmeno questa rubrichinapunk che di dette sfighe si nutre ormai da settimane e quindi meglio così.

Insomma, tornando a noi, in questa grigia mattina di una domenica stanca e un po’ svogliata, sveglio da un’ora improbabile a da quell’ora improbabile compulsivamente attaccato a tutti idevice mobili e meno mobili che ho intorno, mi è venuto in mente che è tutta colpa di un cappero.

Perché per me Natale è un cappero. E Natale è dietro l’angolo. Manca pochissimo. E non bastasse l’atmosfera tutta palle ghirlande slitte e babbi vari a ricordarmi che ci siamo, da una settimana ci si è messo anche Pitone che ora ha deciso di cambiare regime alimentare e allora cosa c’entra ve lo spiego dopo. Ma c’entra, giuro che c’entra.

Torniamo al cappero, al mio cappero.

Un cappero che insaporisce il sugo di pomodoro che accompagna gli spaghetti che aprono, da quando ne ho memoria, la mia cena del 24 dicembre.

Prima degli antipasti, prima di qualunque cosa. Un piatto che ormai sa più di un rito da consumare che di un semplice piacere per il palato. E come tutti i riti che mi piacciono, io lo osservo con puntuale attenzione e rispetto.

Ora, io da dove escono gli spaghetti con i capperi e il pomodoro a Natale e come sono finiti sulla mia tavola non lo so. Non l’ho nemmeno mai chiesto.

Figli di non so quale tradizione visto che a Natale intorno alla tavola da pranzo per tanti anni hanno convissuto persone le più diverse per provenienza geografica. E la tavola raccontava un viaggio tra i sapori dell’Emilia, della Campania, della Puglia e, ovviamente ma non troppo, anche del Lazio.

Insomma, non so da dove venissero questi benedetti spaghetti coi capperi ma ci sono ed è bene che ci siano.

Sono un po’ come Babbo Natale e Gesù Bambino. Io ci credo. Io negli spaghetti con i capperi ci credo davvero davvero.

Come mi ha detto l’altra mattina il mio amico Stefano Justees, Don’t stop believin’ (che è pure il titolo di un bel pezzo cazzuto dei Journey) e quindi io non smetto.

Negli spaghetti con i capperi, anzi i capperini come sentivo dire da piccolo, io ho una fede profonda. Mi danno sicurezza. E anche se mi capita di mangiarli ad agosto, cosa che a dire il vero faccio accadere molto di rado perché mi sembra di rompere un patto non scritto con quel sugo povero e buonissimo, insomma quando li mangio io sempre al Natale penso.

E penso a quella tavola lunga fatta di tanti tavoli messi insieme a casa di mio zio che vive sullo stesso pianerottolo di casa dei miei, davanti al camino, con le sedie rosse e le tovaglie bianche e i nonni di tutti e gli zii di tutti noi cugini intorno e tutti lì, insieme, ad aspettare che venissero le otto e allora cominciava la nostra recita mentre l’acqua degli spaghetti bolliva e noi piccoli che dicevamo le poesie o cantavamo qualcosa e la provavamo per settimane prima e poi di corsa a tavola col profumo di capperi che ci richiamava a metterci seduti e poi i fritti e poi l’insalata russa e la maionese fatta in casa per accompagnare il pesce e poi i dolci leccesi e quelli napoletani e un gesto che a me ancora fa effetto anche oggi, quello scaldare il panettone sul termosifone perché così si scioglieva il burro e diventava più morbido e il panettone quello che veniva spesso da Milano mandato da amici di un mio vecchio prozio che profumava di canditi e uvetta. E poi le foto che ora che le sto guardando e le ho per le mani e sono sbiadite, di quel colore tra l’ocra e il giallo di tante foto di allora e le polaroid che si scuotevano per farle sviluppare e la gioia di vedersi così tutti insieme abbracciati alla nonna, alle nonne, e a tutti gli altri, e poi i giochi di carte e la tombola che io ho sempre odiato trovandoli di una noia definitiva e allora mi mettevo da una parte a leggere perché me la tiravo da intellettuale e avevo anche una pipa finta che tenevo in bocca perché a otto anni senza pipa non sei nessuno e io volevo essere minimo un qualcuno con la pipa e che leggeva le riviste dei grandi piene di parole serissime e difficilissime e che provavano a spiegare ogni cosa del mondo e io lì a domandarmi cosa ci fosse di così difficile da spiegare quando il mondo che volevo io era solo quello lì che avevo davanti agli occhi con le persone che si sorridono e si vogliono bene e si amano e si fanno i regali e sono gentili. E poi magari scazzano pure ma sono loro e si riconoscono e fanno pace e si amano e sono gentili di nuovo.

Insomma sono la foto di famiglia in cui tutti vorrebbero starci dentro, quella con le facce strane, gli occhi chiusi, quelle che non vedevi come oggi come sarebbe venuta e allora ti affidavi al culo di quei momenti e alla speranza che a nessuna venga una espressione di merda e poi dopo trent’anni le riguardi e ci piangi un po’ su perché di quelle espressioni un po’ così hai tanta nostalgia e vorresti rivederle perché quelle foto un po’ sbiadite raccontano anche di tanti che non ci sono più intorno a noi e invece ci sono sempre dentro di noi, e li ritrovi nei sapori e negli odori e nei gesti, piccoli e quotidiani, di fare bene le cose insieme.

E quei gesti, quelle ricette, quegli odori, ad ogni Natale hai voglia di rifarli, per riportare alla vita quei ricordi.

E dopo tanti anni, quest’anno, a ricominciare il ciclo indefesso della vita, mangeremo di nuovo insieme. E non saranno più i nonni ad accogliermi arrivato a casa di mio zio ma i miei nipoti, e a loro starà di ricordarsi un giorno di questi momenti, di queste facce, di questi odori sempre uguali, magari riguardando le foto digitali di questi giorni così belli o compulsando i libri e gli appunti delle ricette che ci accompagnano a tavola e allora anche noi potremo dire di aver fatto la nostra parte. Potremo dire così e per davvero di aver lasciato la nostrapiccola eredità al mondo.

Ora dovrei dire anche cosa c’entra Pitone ma non ho più spazio per farlo. Diciamo che ha fatto da cappero. Ecco, Pitone è un cappero.





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