ANNO 14 n° 116
Punk forever, ''Dimmi cos'è''
>>>> di Massimiliano Capo <<<<<
23/09/2013 - 04:01

di Massimiliano Capo

Dimmi cos’è. Sarebbe da aggiungere il punto di domanda perchè io vorrei proprio saperlo quel cos’è di cui dover dire.

Lo vorrei sapere e per certo comunque non lo saprei spiegare come accade con tutte le cose importanti della vita.

Dal tempo, in ossequio a Sant’Agostino, all’amore, in memoria degli scazzi dei dolori degli sfanculi e delle gioie vissute. Dalla vita che nasce alla vita che finisce. Insomma i misteri, piacevoli o meno della nostra esistenza, stanno tutti lì ad interrogarci e quasi mai a risponderci.

Così per questo, perché invece una risposta la voglio, faccio un atto di fede.

Mi iscrivo al partito dei senza dubbi.

Ecco, oggi ho deciso: scrivo un articolo militante, integralista e pieno di fede.

Farlo su un giornale dove scrive di calcio Andrea Arena è dura, anzi durissima. Lui, finissimo esegeta del fenomeno pallonaro ed io absolute beginner, però ci provo lo stesso.

Perché di calcio voglio scrivere.

Anzi, di Roma. Che, più o meno, e per me più, di calcio è sinonimo.

Il derby è appena finito ed io che avrei dovuto consegnare il pezzo stamattina (scrivo di domenica) ho chiesto a Flavia, la mia redattrice fashion blogger e incidentalmente molto romanista, di poter aspettare la fine della partita perché prima non sarei riuscito a mettere insieme due righe su un qualunque argomento e invece ora mi sento meglio, carico e rilassato insieme. Disteso e insieme già in tensione per la prossima a Genova.

Insomma, il calcio come compiuta geometria delle passioni.

Ma cominciamo dall’inizio che le intro filosofiche è bene che non looppino troppo.

Io il sette ottobre del millenovecentosettantatre ero all’Olimpico, ancora senza copertura, senza seggiolini in plastica, col culo seduto sul marmo freddo di una giornata che ricordo piena di sole e con mio padre romanista e mio zio laziale ero lì per vedere Roma Bologna prima giornata di campionato. Sulla panchina giallorossa il filosofo Manlio Scopigno che prima era a Cagliari e il Cagliari a quel tempo andava forte forte. Comunque, io ero lì ed era la prima volta per una partita di serie A ed era pieno di gente e tutti cantavano e io ero in curva nord che al tempo le curve non erano ancora divise per tifoserie e insomma ero lì e mi sono emozionato.

Perché lo stadio emoziona. La tele anche. Ma lo stadio di più.

Insomma quel sette ottobre del millenovecentosettantatre è stato il giorno del primo gol del capitano. Dico quello dei miei anni giovani: Agostino Di Bartolomei. Che al tempo aveva più o meno diciottanni e che io non sapevo nemmeno chi fosse e con mio padre lo chiedemmo a chi ci stava vicino e lui ce lo disse e io questa cosa me la ricordo da quel giorno e non me la sono scordata mai più fino ad oggi perché poi l’ho letto pure sul CorrierBoy che era l’evoluzione del Corriere dei Ragazzi e che io leggevo e che lo intervistò dopo la partita perché era un giovane di talento e aveva fatto gol e pure Prati ne parlava bene. E Pierino Prati era uno forte e se lo diceva lui era così.

Ecco così è nata la mia fede. E la chiamo fede perhèe non la so spiegare e se mi domando cos’è non lo lo so ma per certo così è e sarà.

E senza scomodare Nick Hornby, l’estetica e l’etica ultras, il calcio inglese, le nobili e meno nobili ascendenze di un gioco a diffusione planetaria, e senza soprattutto farla troppo lunga, è proprio quel cos’è di cui non sappiamo quello di cui tutti parliamo.

Quello che tutti evochiamo aprendo i cassetti della memoria e remixando i frammenti radiotelevisivi che hanno reso indimenticabili quei pomeriggi di fronte alla radio a sentire le voci amiche dei telecronisti di Tutto il calcio minuto per minuto, e poi tutti di corsa davanti alla tele per vedere Paolo Valenti e Novantesimo Minuto coi suoi servizi che in due minuti ti facevano vedere tutta la partita e il resto erano solo parole che si trasformavano in immagini mentali e in partite probabilmente mai giocate in quel modo.

E insieme a Paolo Valenti quella epifania di italiani medi che rispondevano ai nomi di Giorgio Bubba e Tonino Carino e Cesare Castellotti e Beppe Viola e Marcello Giannini e Gianni Vasino e i tanti altri di quei pomeriggi infiniti.

E poi, a chiudere la giornata, un tempo di una partita che finiva poco prima di cena nel bianco e nero tutto grigio dei televisori del tempo, quel che dietro erano ingombranti, altro che il 4k di oggi.

E durante quel tempo di una partita di cui si sapeva solo poco prima che cominciasse quale fosse e tutti lì a tifare che toccasse alla propria squadra del cuore e poi vederla comunque per dare risposta all’astinenza da pallone che rotola, c’era il rito della merenda tardiva, quella fatta di pane e nutella e succo di frutta e maglioni pesanti e compiti da fare e mai fatti e di sonni fino a tardi durante tutto il giorno perché almeno la domenica si poteva dormire perché il mattino avrà pure l’oro in bocca ma che palle.

E quella era la Roma che, cacciato il filosofo Scopigno dopo sette giornate, diventò di Liedholm e aveva la maglia giallorossa dei colori veri e poi venne anche la Roma che sembrava un ghiacciolo con la maglia bianca e le strisce sopra e poi tutte le altre. Insomma la Rometta di un tempo che a ripensarlo oggi era tanto tempo fa. E poi quella Rometta diventa la Roma e si vince lo scudetto e si perde la Coppa dei Campioni e Di Bartolomei va via e allora cambia tutto ma non quel cos’è che andiamo cercando dall’inizio.

E poi altri capitani e poi altre Rome e altre Romette. E noi sempre a cantare a gioire a scazzare a sfanculare a prendere per il culo ad esser presi per il culo come ogni culto collettivo prevede e merita.

E poi quando ne parli con qualcuno che fede non ha e non ti capisce e ci provi a spiegarlo e non ci riesci perché quel cos’è non ti esce e lo guardi con compassione e ti verrebbe di evangelizzarlo e di portarlo con te e di fargli capire cosa si sta perdendo e come è possibile che non senta questa voglia di condividere una passione così totalizzante, insomma quando ci parli ti rendi conto che davvero è come con la religione quella vera: o ce l’hai o non ce l’hai. La fede intendo.

E quando arriva come a me nell’ottobre del millenoventosettantatre e ti entra dentro con le stessa forza di una folgorazione improvvisa l’unica cosa che puoi fare è dirlo, testimoniarlo.

E sperare che Dio, quello vero e che ci guarda da lassù, abbia compassione di noi infedeli, fedeli all’ultraterreno e misterioso cos’è di undici ragazzi con la stessa maglia sudata e noi qui a guardarli e a farci felici o tristi per un gol o un palo un errore sotto porta o una rovesciata imprevista.

E soprattutto ringraziare quel Dio, sempre quello vero e che ci guarda da lassù, di averci fatto romanisti.

See you.





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