ANNO 14 n° 116
Punk Forever, Ci siamo, ci siamo
<<<< di Massimiliano Capo >>>>>
16/06/2014 - 02:01

di Massimiliano Capo

Via, ci ho provato a non scriverla più ‘sta benedetta rubrichinapunk ma non ci sono riuscito. Almeno per ora, vi beccherete la solita cosina piena di amorini e di storielle e di bacini e di corse sulla spiaggia che ci stanno pure bene visto che l’estate sta arrivando anche se, a guardar fuori della finestra, in questa stanca mattina di metà giugno, l’estate sembra stia finendo, altro che cazzi.

Il cielo è grigio, è piovuto per tutta la notte e l’Italia ha vinto e noi siamo tutti felici eio ora anche un po’ assonnato vista l’ora che ho fatto davanti alla tele che poi è difficile prender sonno subito e poi mi sveglio sempre presto un po’ per l’abitudine e un po’ per l’età che avanza e allora sono quidavanti allo schermo bianco del mac ed è mezzogiorno e scrivo in quella sorta di catalessi creativa di tante domeniche in cui l’hangover da nulla prende il sopravvento e, per fortuna, si fatica a ritrovare la lucidità.

E allora è meglio cogliere l’attimo, questo attimo a ritmi più lenti del solito, e darci dentro prima di tornare in me che di solito poi mi passa anche la voglia di scrivere.

Cominciamo da qui.

Dice il saggio: ‘’Non c’è alcuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, delle finestre per guardare gli alberi e un camino per il fumo…Si può benissimo immaginare una storia a forma d’elefante, di campo di grano, o di fiammella di cerino’’.

Ecco, a me questa cosa della storia a forma d’elefante o di campo di grano o di fiammella di cerino o, aggiungo io che saggio non sono, di cappello di feltro o di gelato alla frutta o di campo di papaveri, insomma questa cosa della storia come mi va, a me non mi esce dalla testa da due giorni, da quando ho ripreso in mano un vecchissimo Almanacco di Linus del 1978 dedicato alla rivista francese di fumetti MètalHurlant e al gruppo di scrittori e disegnatori che la animava.

Il saggio di cui sopra si chiamava Moebius e di MètalHurlant era una della firme più note e per chi è curioso di leggere le sue storie senza testo basta guglarlo un po’ e lasciarsi andare.

Ma questa non è una rubrichina di fumetti e allora la finisco qui con Moebius e il suo mondo e mi prendo la sua storia a forma di elefante e vi sparo qui la mia che chissà come uscirà fuori perché l’avevo pensata come una storia con porta e finestre, con entrata e uscita, insomma la solita storia e invece no, ci provo e comincio dalla proboscide.

In una storia a forma di elefante, o almeno nella mia che a pensarci bene ognuno ha la sua, si comincia da una giornata estiva di tanti anni fa quando ancora il vento mi soffiava tra i capelli lunghi e pieni di boccoli e tutto intorno c’era l’odore del mare e della panna del cornetto algida e la sabbia sui piedi e il costumino bagnato e la mamma e il babbo sulla spiaggia sotto l’ombrellone e l’odore dei pitosfori e il panino col tonno e i sottaceti e la radio che mandava la musica di quegli anni e nella macchina gli stereo8che erano grandi come le videoccassette e facevano uno strano fruscio mentre andavano e le copertine erano appiccicate sopra con la colla che col caldo cedeva e allora per sapere cosa ci fosse dentro bisognava affidarsi a quello che era rimasto attaccato della vecchia copertina e per il resto al culo di riconoscere i brandelli che ti rimanevano incollati alle mani unte e salate.

E io in quella estate mi rivedo lì a giocare coi soldatini Atlantic, quelli piccoli piccoli che chissà dove li ho messi ma ne avevo a decine e me li portavo sempre dietro.

E poi lungo la proboscide di questa storia a forma di elefante c’è l’odore della crema solare che sennò ti bruci e le corse affannate nel caldo di tante estati tutte uguali. E le scarpe da indiano e quelle trasparenti di gomma per andare sugli scogli e il bagno a riva perché non so nuotare.

E poi volando sulle grandi orecchie mi ritrovo in un bar sul lago con un grande tavolo da pingpong e la spuma nera nel bicchiere e il vecchio barista col cappello in testa anche d’estate e le magliette bagnate e giocare per ore e nella stanza a fianco un cinema di quelli che non ci sono più con le sedie di legno che ti si saldavano al culo mezzo scoperto dai calzoncini corti e io lì ci ho visto un film di Kurosawa che si intitola DersuUzala e ci ha pure un lungo sottotitolo, un film dove non succede nulla per ore ed ore e poi non parlano mai e quando lo fanno accade in una lingua mai sentita e io ero piccolo e mangiavo la liquirizia lì nel buio e quando si è accesa la luce avevo tutta la bocca nera e la tipa dietro di me rideva e io non capivo e avrei voluto sfancularla e invece no, me ne sono rimasto lì, zitto e offeso, che di quello che avevo in faccia me ne sono accorto solo a casa ed era troppo tardi per ritrovarla e sputarla con la rabbia dell’incompreso.

E arrivando saldamente in groppa alla mia storia a forma di elefante mi ricordo la festa del patrono che sono sul lago ed è metà agosto e tutto il paese è intorno al Santo e si cammina piano e poi ci sono i fuochi d’artificio che mi ricordo quella volta che scoppiarono tra le gambe di chi era venuto a guardarli e ci fu un gran casino e allora poi cambiarono e poi il concerto nella piazza del gruppo del paese che faceva i pezzi rock e io avrei voluto essere sul palco con loro perché le bambine coi capelli rossi li guardavano e io guardavo loro, le bambine, e loro non guardavano me perché non sapevo suonare e allora saltando verso la coda io mi sono iscritto al corso di chitarra dell’arci e ho imparato gli accordi e però suonavo delle cose tristissime e non quelle meravigliose canzoni rock che piacevano alle bambine e allora mi ricordo che ero deluso da quelle musiche barbose e sono diventato punk per suonare le cose che mi piacevano e per piacere alle ragazzine dai capelli rossi perché la musica fa innamorare e poi ci tiene insieme.

E ora che sono arrivato alla coda, dalla storia elefante posso scendere, perché mentre la scrivevo ho ascoltato una canzone bellissima e ora la metto qui (CLICCA QUI) perché vorrei che tutti la sentiste, miei adorati venti lettori, perché l’avrei voluta scrivere io e giuro che un giorno ci riuscirò e poi prendo la chitarra e la vado a cantare nel prato su cui corre la mia ragazzina dai capelli rossi e allora sarà come in quelle estati lontane e sul quel palco in mezzo a quel prato ci sarò io e canterò e lei mi guarderà e poi ci vogliamo e.

Buon lunedì.





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