ANNO 14 n° 111
Punk forever, A me me piace o'blues
>>>>> di Massimiliano Capo <<<<
21/10/2013 - 02:39

di Massimiliano Capo

Ho comprato il mio primo 45 giri che avrò avuto sì e no dieci anni, era il millenovecentosettantasette, e la mia scelta cadde su ''Se mi lasci non vale di Julio'' Iglesias e su un pezzo indimenticabile dei Collage, ''Tu mi rubi l’anima'' presentato al Festival di Sanremo dello stesso anno.

Julio Iglesias se lo ricordano più o meno tutti, i Collage meno, ma erano un gruppo di giovanissimi ragazzi sardi che ho ritrovato ancora in tour tra i paesi della Sardegna in una recente vacanza sull’isola.

''Tu mi rubi l’anima'' io la so ancora a memoria ed è questa:

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Da quel giorno ormai lontano, non ho mai smesso di comprare musica passando dal vinile, insieme alle cassette su cui creare quelle compilation che accompagnavano le gite col mangianastri e primi viaggi in macchina con l’autoreverse della stereo a farne un flusso di suoni senza sosta, ore ed ore su e giù a cantare e a sognare ad occhi aperti, ai cd e poi ai file digitali di oggi.

E siccome non sono un nostalgico, amo i file quanto i vinili che avranno pure una profondità di suono che li rende più caldi ma provate a portarveli dietro per ascoltarli correndo e poi vedrete che il digitale tutto sommato così brutto non è.

Ma non era di questo che volevo scrivere.

Volevo, e vorrei, rincoglionimento da a letto alle cinque di mattina permettendo, dire della musica come passione assoluta. Come fedele compagna di viaggio. Come attivatrice di ricordi profumi sensazioni sogni delusioni e riflessioni. Come l’altra faccia del silenzio, essenziale come quest’ultimo a definire lo spazio delle nostre sensazioni.

Insomma, ora sono qui al pc a scrivere ma fino a poco fa invece dormivo più o meno profondamente con le partite di calcio in sottofondo sul divano e mentre ero lì, nel tepore del dormiveglia infilato sotto un plaid dentro una tuta larga e comoda e una tshirtallblack, pensavo ad organizzare frasi e pensieri e ho cambiato idea almeno mille volte, ho riscritto l’attacco almeno duecento e soprattutto non mi decidevo a concentrarmi su nessun argomento; insomma, segna la Fiorentina e il telecronista mi riporta nel mondo cosciente e più che sulla voce un po’ sguaiata del tipo di Sky l’orecchio mi cade sulle note di un blues che esce dallo studio di mio padre.

Il blues, avete presente, ha quel suo andamento ipnotico, quella sua eterna ripetizione di uno schema assolutamente prevedibile nella struttura quanto nuovo ogni volta nella sua declinazione. Io lo ascolterei per ore, non mi stanca.

Insomma dallo studio usciva la voce roca e nera di una cantante, il suono strappato di una chitarra, con quel mood un po’ triste e un po’ no che la parola blues descrive così bene e che non trova un equivalente in italiano.

La musica giusta per il sole al tramonto, per l’arancio di cui si sta colorando il cielo di questo autunno ancora così tiepido e che vedo girandomi dalla finestra alle mie spalle.

E’ soprattutto la musica in cui si possono riconoscere le ascendenze di quasi tutta la musica popolare successiva, anche la più apparentemente distante.

Insomma e per farla breve a me la musica mi ha cambiato la vita.

Me l’ha fatta apprezzare di più. Me la ricordo meglio se penso alle canzoni. E a pensarci bene ho un pezzo per ognuna delle cose che mi sono successe.

Ha stimolato la mia curiosità e ho provato a studiarla, a capirla, a infilarla in uno di quelli schemi con cui abbiamo a che fare ogni giorno e che sono un po’ il nostro antidoto all’ansia: definiamo per sottrarre spazio all’indefinito che è la cosa che più ci fa paura su questa terra: non sapere esattamente cosa abbiamo davanti.

E invece la musica, tutta, anche la più merdosa, ci apre su spazi di infinito che hanno nell’imprevedibilità la loro cifra di essere. Dopotutto le 12 note, basta riflettere a quante cose ne sono uscite fuori, devono essere davvero magiche.

E ora che sono qui a ripensarci mi ricordo di quando mandavo mio zio a comprarmi gli ellepì che non trovavo e avevo voglia di avere subito in centro a Roma, lui che abitava a Cinecittà e che doveva quasi farsi un viaggio per arrivare da Millerecordse magari tornarci pure a prendermi l’ultimo (e unico) disco dei New Race che poi ho prestato e non mi hanno ridato e l’ho ritrovato durante una passeggiata vicino al Colosseo in un negozio pieno di ristampe e l’ho preso di nuovo e poi i viaggi con la speranza di completare la wishlist che cresceva di giorno in giorno da Disfunzioni Musicali a San Lorenzo con i dischi della Trojan in bella mostra e ogni ben di dio delle cose più di avanguardia, quelle di cui leggevi un trafiletto sul Mucchio Selvaggio e sulle altre fazine e riviste dell’epoca e di cui ti fidavi perché i dischi li compravi a culo e non come ora che tra ascolti e pre-ascolti sai già cosa c’è dentro.

Lì, a quel tempo, era tutta una storia di sensazioni, di intuizioni tra una parola e l’altra usata dal tuo giornalista preferito, era la copertina intravista stampata di merda sul giornalino, era un disco del passato che ti era piaciuto.

Era tornare a casa e alzare la puntina del giradischi e tremare quando sentivi gracchiare il vinile e dalle casse uscivano le prime tre note e già avevi capito tutto. Ed era amore o era la sfiga di aver buttato la tua paghetta in una cosa che non avresti mai più ascoltato se non magari oggi che son passati trent’anni e la retromania fa tutto più bello e ti piace anche quel disco dei The Jazz Butcher con cui hai litigato per mesi.

Perché un po’ i dischi te li fai anche piacere, gli trovi un verso anche se non ne hanno, li sezioni nota per nota, fai cut-up mentali e bon, così, da dadaista nella tua cameretta.

Perché la musica si sente in cameretta anche quando hai una villa a sei piani o un monolocale. Ti fai la tua cameretta mentale, ti infili là dentro e lì ascolti la musica. La tua musica. Le tue schegge impazzite di note.

E oggi puoi anche dirlo a tutti quello che ascolti e anche mentre lo fai e una volta invece era al telefono che potevi farlo e con un solo amico alla volta e magari poi la sera in piazza tutti insieme e poi ti scambiavi i dischi e li registravi e vedevi lo spazio sempre più pieno di cose e il casino ovunque ma eri contento solo lì in mezzo.

E stavi le ore a dire se era più rock questo o quello, se era ancora progressive (e a me il progressive non è mai piaciuto) o se finalmente eravamo usciti dal baratro delle suite da ventitreminuti a far finta di essere Bach ma erano solo Emerson Lake e Palmer.

Insomma la musica. Che sembra una squadra di calcio per la passione che scatena.

Che sembra una donna per l’amore che suscita.

Che non ha nessuna voglia di essere raccontata perché a raccontarla la musica un po’ gli si fa del male.

E a noi, che le vogliamo così bene, di farle del male non va nemmeno un po’ e quindi chiudiamo qui.





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