ANNO 14 n° 106
Proust in cucina, Trasognato panunto
>>>>> di Massimiliano Capo <<<<<
18/08/2014 - 00:00

di Massimiliano Capo

VITERBO - Le scale che portano alla chiesa sono le stesse. Anche il grande portone d’ingresso. Forse riverniciato, ma sole e umidità lo hanno fatto uguale a quello che sto guardando adesso. Gli arredi non sono cambiati, sembra solo tutto più spoglio. I banchi hanno i nomi di chi li ha donati e i cuscini dove appoggiare le ginocchia sono consumati dall’uso. Intorno gli affreschi, gli ex-voto, le statue, i portacandele con sotto l’urna per le offerte. In fondo, l’altare, di fianco la statua della Madonne e dietro il tabernacolo che conserva le ostie e il vino consacrato. In chiesa si entra anche di lato e dalla canonica, una volta, ho sentito suonare una chitarra ed era l’alba.

 

Ieri ero sotto quelle scale ad attendere che il Santo tornasse a casa accompagnato dai pochi anziani e dai pochissimi giovani che seguivano la processione.

 

Il parroco su quelle scale battute da un vento freddo e poco agostano ha benedetto quello sparuto gruppo di teste bianche e infreddolite e ha invitato tutti a mettersi a disposizione per non perdere quel poco che resta di una tradizione centenaria. Non si trovano più persone disponibili a regalare un po’ del loro tempo alla Confraternita che organizza la processione. Se continua così, dal prossimo anno il Santo lo trasporteremo con l’Apetto. Così ha detto il parroco.


E la banda del paese, quella del nonno, non c’è più da tempo, sostituita da quella dei paesi vicini.

 

Ora, ho in mano una foto ingiallita coi colori saturi delle pellicole di anni lontani. È stata scattata dallo stesso punto in cui ero ieri ad aspettare San Rocco e su quella scalinata c’è una folla fitta di uomini vestiti di scuro, con le camicie bianche e linde di bucato, e di donne col coprispalle e i vestiti fiorati su piccoli tacchi. È l'inizio di ottobre, una giornata di solelo si vede dai riflessi sul muro e dalle facce sorridenti. Una di quelle giornate chiare e limpide in cui si distinguono senza fatica tutti i paesi del lago e li si indica a chi non li conosce e si ferma a guardare il panorama dal muro che costeggia la salita che porta alla rocca dei Farnese. Il sole è caldo, nessuno indossa il cappotto, solo qualche raro impermeabile, e dall’acqua salgono riflessi che accecano a guardarli anche in foto.

 

Al centro della scalinata c’è una ragazza in abito bianco e al suo fianco un giovane magro e coi capelli chiari pettinati alla moda del tempo. Intorno, facce più anziane con il volto segnato dall’emozione. Gli sguardi sono un po’ spauriti, sembrano pensare alla vita che sarà. Quei due ragazzi sono il mio babbo e la mia mamma.

 

Ora, li seguo continuando a sfogliare le foto, sono sul lungolago, su un prato verde e gli alberi coi colori dell’autunno addosso. Qualche cappello, molte sigarette, cravatte allentate. È un dopo pranzo come tanti, con le chiacchiere fra amici, le risate che pare di sentirle, i saluti fra parenti che non si incontrano mai.

Una torta a più piani, le mani che tremano a tagliarla, i sorrisi pieni e ormai stanchi.

 

Nella foto ora ci sono io, e su quelle scale ci sono i miei amici. È una festa di compleanno di tanti anni fa. Anche in questa foto c’è il sole e ci sono camicie e pochi maglioni. È maggio e siamo tutti lì, i visi sorridenti e gli occhi ebbri.

 

La foto non c’è ma io su quelle scale ho visto gli occhi di chi ho amato. Li ho visti sorridere e piangere. Li ho visti rifugiarsi in cima nel buio della notte e li ho visti dentro i miei in un bacio.

Su quelle scale ci ho anche giocato. Con i tappi a corona delle bottiglie di birra e bibite, riempiti di cera, con dentro le facce dei ciclisti e noi a farli correre lungo il percorso ad ostacoli fatto degli scalini e della loro superficie usurata. Erano partite lunghissime che vedevano cambiare il campo di gara allo spostarsi dell’ombrache seguiva il sole, dapprima alto in cielo e poi pronto a coricarsi dietro il monte lontano.

 

D’inverno quelle scale le ricordo battute dal vento freddo di tramontana, il portone della chiesa serrato, nessuno in strada e dietro le porte il vociare dei bambini e il profumo dei pranzi domenicali.

 

Parcheggiavamo la macchina sotto la chiesa e scendevamo a casa a piedi, coi cappotti chiusi, la sciarpa e il cappello calato fin sugli occhi, andando di corsa per i pochi metri che ci separavano dalla stanza calda col camino grande in cui ci accoglieva la nonna.

 

Il paiolo con l’acqua bollente al centro della fiamma e sotto, la griglia già pronta con le salsicce fatte in casa e la pancetta e il pane caldo e croccante a cuocere sul fuoco e a raccogliere il grasso saporito e profumato.

 

I fiori di finocchio essiccati durante l’estate profumavano la stanza col loro odore deciso e davano al maiale e al pane un sapore inconfondibile.

 

Questo è ''il panunto, o panonto, termine dialettale usato nella Tuscia per indicare robuste fette di pane casereccio che venivanoinsaporite schiacciandovi in mezzo le fette di ventresca, le salsicce, le braciole di maiale, che, soprattutto nelle serate invernali, si mettevano a cuocere sulla graticola posta sui carboni ardenti'' da Tuscia a Tavola di Italo Arieti).

Buon lunedì.

 





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