ANNO 14 n° 111
Proust in cucina, Le storie siamo noi
>>>> di Massimiliano Capo <<<<
08/09/2014 - 00:00

di Massimiliano Capo

VITERBO - Da dove ci viene la voglia di leggere, scrivere e condividere storie? Le nostre, quelle che inventiamo, quelle che leggiamo inventate per noi e in cui ci sembra di ritrovare la nostra vita, le nostre gioie, le nostre paure al punto che spesso pensiamo che siano state scritte proprio per noi  anche se hanno qualche secolo sulle spalle e di noi non c’era traccia nemmeno nell’iperuranio?

Da dove ci viene? Qualcuno dice che sia un modo come molti altri per allontanare il pensiero della fine della nostra presenza sulla terra; altri lo attribuiscono a una quota in eccesso di narcisismo di chi le mette insieme, tipo si scrive innanzitutto per se stessi e poi che ti legga qualcuno è una cosa a metà via tra il culo e il caso, che più o meno la stessa cosa. E si potrebbe continuare all’infinito con spiegazioni sempre più complesse che fanno riferimento alla psicologia, alle neuroscienze, alla teoria dei giochi e via così, sempre più in alto,come nella vecchia pubblicità della Grappa Bocchino.

 

Comunque, basa pippe (giusto per rimanere in tema) e veniamo a noi. La settimana scorsa ho scoperto che esistono i manga.

Cioè già lo sapevo che esistevano e ne avevo anche comprati alcuni ma non li avevo mai letti con il giusto spirito e non li avevo mai trovati granché appassionanti.

 

E invece dentro i manga (come al solito generalizzo anche se non dovrei, perché dire manga è come dire fica, cioè non è che sono tutti belli e arrapanti esattamente come accade con la suddetta e perdonate l’ardire), insomma dentro i manga c’è invece un sacco di roba divertente.

 

Io mi sono appassionato alle storie di Inio Asano che ha un tratto più europeo e  storie che hanno l’andamento di una nostra graphicnovel mixata abilmente col tono trasognato degli haiku, quelle poesiole jappo in tre versi che leggi dieci volte e dieci volte ti sembrano dicano una cosa diversa e sempre mediamente intelligente. Soprattutto, e lo dice Wikipedia, l’haiku è una sorta di anti sillogismo, cioè per dirla semplice semplice, ad un certo punto (e visto che sono solo tre versi il punto viene quasi subito) si ha un salto logico, un cambio di frame, che ci lascia un po’ basiti e ci fa pensare diversamente sulle cose del mondo da come siamo abituati a fare noi occidentali tutti cresciuti a pane e dialettica.

 

Tranquilli, non è che per leggere un manga bisogna necessariamente aver dato l’esame di filosofia teoretica ma insomma i livelli di lettura sono sempre tanti e fare un po’ di sforzo per superare il primo come si fa con un videogioco non è detto che sia poi così sbagliato.

 

Basta divagare e riassumendo: eravamo più o meno qui, al perché ci piacciono le storie? E alla mia scoperta dei manga che a leggerlo di seguito sembra il titolo di quei manuali in lingua inglese che ad un qualunque argomento associano sempre la parolina magicadummies che rimane tale anche in italiano, visto che, per pudore, nessuno la traduce perché suonerebbe tipo coglioni e pare brutto metterla in copertina.

 

Insomma, perché ci piacciono le storie? (coi manga intanto ho finito). Ci penso su da un bel po’ e sono arrivato alla conclusione che se le storie ci piacciono è perché non ci piace star soli. Che poi è quello che dicono tutti quelli che se ne sono occupati e che hanno però il dovere professionale di dirlo in maniera coomplicata. Cioè io quelli che dicono di star bene da soli li guardo sempre con un po’ di sospetto, quelli che si bastano, che hanno vissuto così tanto che ora si sentono isole felici della loro autosufficienza, a me mi fanno paura.

 

Ecco, le storie sono l’antidoto contro questa pericolosa malattia e sono anche la dimora per quelli che invece nel calore di uno sguardo, di un sorriso, di un abbraccio, nello stare seduti vicinivicini a dir cazzate finché il sonno non ci spegne trovano il senso della loro esistenza.

 

Io, invece, questi tipi li amo. E amo le loro storie. Tipo quella di un banjo suonato sul lago da un venditore di bachi da pesca o quelle degli amori estivi e adolescenti che tutti sanno essere infarcite di fatti mai accaduti eppure le si ascolta e si gusta la farcitura che nemmeno la marmellata di arance nella sachertorte.

 

E ora vorrei tanto raccontarvelo di quel tipo che di sera, appena cenato, si metteva fuori la porta di casa ed era estate e col suo banjo cantava pezzi imparati chissà dove e lo sentivi da lontano manco fossimo stati nel sud degli Stati Uniti e non sul lago di Bolsena.

 

Ora però non ho più spazio e manca ancora la ricetta che poi è la ragion d’essere di questa cartellina e allora, bando alle ciance, e con abile mossa jappo compongo il mio haiku zen culinario e arrivo subito al punto (quello che si chiama kiru) così, saltando di palo in frasca e senza pensarci su troppo, piroetto verso le tagliatelle all’uovo secondo la ricetta di mia nonna.

Eccola.

Per 4 persone:

4 uova

400 grammi di farina

1 cucchiaio d’olio

1 pizzico di sale.

Fate una fontana con la farina sulla spianatoia e metteteci al centro le 4 uova sgusciate, il cucchiaio d’olio e il pizzico di sale. Sbattete le uova con una forchetta o con le dita incorporando man mano la farina circostante. Lavorate il composto con energia per circa 20 minuti tirandolo e schiacciandolo anche con i pugni. Appena la pasta sarà liscia, elastica ma allo stesso tempo soda, avvolgetela a palla, copritela con la pellicola per alimenti e lasciatela riposare al fresco per 30 minuti. Dividete la pasta in 8pezzi, tirateli col matterello o passateli tra i rulli della macchina per la pasta. Tagliate infine la pasta nella forma desiderata.

A me piace spessa e larga a sufficienza per raccogliere il sugo denso che una tagliatella si merita.

Enjoy!

 

 

 





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