ANNO 14 n° 116
Proust in cucina, colosseo e pollo alla romana
>>>> di Massimiliano Capo <<<<<
27/10/2014 - 02:01

di Massimiliano Capo

VITERBO - Ecco, ieri GiorgiaPunk mi ha chiesto di portarla al colosseo, con la c minuscola.

Lei esagera sempre: voleva andare al museo ma le sembrava poco chiamarlo semplicemente così e allora ne ha inventato il superlativo e quindi da oggi, quando entrerò in un museo spaccante, quello sarà un colosseo, sempre con la c minuscola, e bon.

Poi, sempre ieri, ho riletto un po’ di Borges perché la ragazzina dai capelli rossi mi ha chiesto di darle dei libri da leggere e il vecchio Jorge Luis era lì in mezzo agli altri e allora ho cominciato a sfogliarlo e come resistere al suo Libro degli Esseri Immaginari?

L’anfisbena, le antilopi a sei zampe, l’asino a tre zampe, il borametz, il simurg, le sirene e decine e decine di altre figure magiche.

Pagine di sapienza, erudizione, curiosità, gioco, meraviglia e fantastico.

E mentre ero lì alle prese con Borges, con una di quelle singolari associazioni a cui Freud avrebbe trovato certamente una spiegazione che avrebbe avuto a che fare con una qualche insoddisfatta pulsione sessuale, mi ritrovo a ripensare a un vecchio articolo di Beniamino Placido in cui Placido recensiva a suo modo un vecchio film di Ermanno Olmi che si intitolava e si intitola L’albero degli zoccoli.

L’albero degli zoccoli è uscito nel 1978 ed è recitato in dialetto bergamasco e ha vinto la Palma d’oro a Cannes lo stesso anno.

Racconta la storia corale di alcune famiglie contadine della bassa bergamasca negli ultimi anni dell’ottocento.

Io L’albero degli zoccoli l’ho visto per la prima volta al cinema che facevo le medie e mi ci hanno portato per forza e siamo andati tutti quanti perché era una di quelle cose che bisognava fare e quasi nulla mia ha devastato le palle come quel film: nemmeno il miglior Terence Malick.

Ma torniamo a Placido: cosa dice nelle sue due paginette? Disvela tutto il carico ideologico del film (cosa abbastanza comune per quegli anni pieni di certezze, basti pensare a Novecento di Bertolucci) ma, soprattutto, il vizio italiano (e non solo) di vivere di nostalgie, di rimpianti per un tempo passato reso sempre attraverso le lenti del mito.

Ecco, quell’articolo, così come il film, ha quasi quarant’anni ma questa idea di rimettere al passato le speranze per il futuro è una attitudine mentale che non abbiamo superato.

Tutto ciò che cambia impaurisce ed è tutto un alzare muri e fortificazioni come se si potesse fermare la forza creatrice, il caos, da cui solo può nascere una stella danzante.

C’è un librino, poche pagine ma assai dense, che Adelphi ha pubblicato qualche anno fa e che si intitola La tirrania dei valori. Lo ha scritto un altro di quegli autori eterodossi che risponde al nome di Carl Schmitt.

E Schmitt ci mette in guardia dall’usare con leggerezza una parolina, valore, che torna a suonare con una frequenza sempre più alta e sempre più sospetta nei passaggi di epoca: ne ricostruisce la storia e ne svela il conio recente e, soprattutto, a noi che lo leggiamo a distanza di anni dal momento in cui è stato scritto, ci fa riflettere su tutti i guai che l’ostensione di universi chiusi e impermeabili porta con sé.

Ecco, ci vorrebbe una religione aperta. Quella a cui il buon vecchio Aldo Capitini, di cui quasi nessuno ormai si ricorda, ha dedicato l’impegno di una vita di filosofo e nonviolento.

Una religione del dialogo e della comprensione in grado di tramutare il nostro essere nel mondo. Una religione della grazia e della gentilezza. Del rispetto e della dignità di tutti gli esseri viventi.

Il solo scriverle, queste paroline, suona strano in tempi di incazzati perenni e di più o meno palesati scontri di civiltà alla fine della storia ma è proprio qui ed ora che di sorrisi aperti si ha bisogno.

E di amore per il prossimo, che si chiama così perché è chi ci sta vicino e da qui dovremmo cominciare.

E mentre sono qui a ripensare a queste cose, sento salire dalla cucina i profumi della ricetta di mamma Silvana che per domani propone il pollo alla romana coi peperoni, e in sottofondo scorrono le note di Una lunga storia d’amore di Gino Paoli e io mi ricordo di averlo visto una trentina di anni fa in concerto con Ornella Vanoni ma questa è un’altra storia.

Questa, invece, è la ricetta:

Ingredienti:

1 pollo tagliato a pezzi

3 peperoni

1/2 cipolla

1/2 kg di pomodori freschi

1 e 1/2 bicchiere di vino bianco

olio

sale e pepe

Preparazione:

In una casseruola rosolate il pollo a pezzi con olio, sale e pepe. Nel frattempo in una padella antiaderente soffriggete in poco olio la cipolla e successivamente aggiungete i peperoni tagliati a listarelle. Dopo averli saltati per pochi minuti, aggiungete la metà della quantità di pomodori freschi tagliati a pezzi e acqua fino a che la cottura dei peperoni non è completata.

Quando il pollo è ben rosolato e la pelle risulta croccante sfumatelo col vino bianco. Dopo circa 10 minuti aggiungete i pomodori rimasti tagliati a pezzi e lasciate andare a fuoco basso per circa 40 minuti. Quando i peperoni e il pollo sono pronti, uniamoli e lasciamlio insaporire per 5-10 minuti.

 

 





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