ANNO 14 n° 88
Il Macbeth di 'Sergio Urbani'
Intervista al regista dopo l’ultima fatica shakesperiana che sta riscuotendo un enorme successo
20/06/2017 - 12:26

 

TUSCANIA - “Ho camminato tanto nel sangue che se non proseguissi, tornare indietro mi sarebbe così pericoloso come avanzare” questo uno degli estratti dall’opera del maestro Sergio Urbani che il 2 giugno ha debuttato in prima nazionale nella meravigliosa cornice del teatro Rivellino a Tuscania.

Ma cosa c’è dietro al Macbeth di Sergio Urbani? Difficile dirlo, proviamo incontrando il regista ad entrare nella sua mente al momento della creazione.

Si apre il sipario, imperioso e fiero sta centrale a capeggiare un trono soprelevato di circa due metri, cosa ha voluto rappresentare con quest’altezza il maestro, l’inarrivabilità del trono, l’aspirazione di Macbeth di detronizzare Re Duncan, l’intoccabilità del suo regno, tanto che poi il trono in un cambio scena viene anche abbassato, quasi a renderlo più vicino all’oscuro intento del protagonista?

“Il trono in cima rappresenta la verticalità, l’aspirazione, l’elevazione e la scalata al potere sia da un punto di vista concettuale che estetico. Subito dopo l’uccisione di Re Duncan da parte di Macbeth (sarebbe più opportuno ovviamente dire da parte della coppia Macbeth) i piani diminuiscono da 4 a 3 (esattamente come le streghe che ne hanno profetizzato la grandezza, e infatti sono loro a manipolarlo e condizionarne gli esiti) e su questi vengono incoronati. Il livello viene abbassato per sottolineare quanto il nuovo Re ne sia già in partenza immeritevole, ed il trono stesso finisce in proscenio al livello di qualsiasi altro suddito.”

 

Quale input iniziale ti ha fatto decidere di inerpicarti per l’impervio sentiero dell’opera nera di questa tragedia?

Il regista sorride “l’idea di Macbeth è più un’ossessione connaturata in me dall’età di 13 anni, quando per la prima volta mi è capitato tra le mani ed ho potuto assaporarne tutta l’oscurità, la magia, la perversione, l’estrema passione, la follia pura. In quel momento ho deciso che le nostre strade si sarebbero rincontrate.”

Regista di successo internazionale Sergio Urbani si divide tra la Tuscia e Parigi annoverando tra i suoi grandi successi la direzione di compagnie di fama sia in Italia che all’estero. Vuoi parlare anche di chi ha collaborato con te?

“Vorrei menzionare alcune figure fondamentali in questo percorso, oltre ovviamente agli interpreti. Ramona Giraldi, ha curato con me ogni dettaglio organizzativo e non solo, così come Raffaele Selvaggini che ha pensato, progettato e realizzazione il piano luci e la fotografia che desideravo, Paola Paradisi, la visual designer che ha immaginato, disegnato e curato i costumi di scena e altri particolari estetici, Francesco Meloni che ha realizzato il trailer e le foto di scena. Con ognuno di loro ho lavorato fianco a fianco nelle varie sfere interessate ed ognuno di loro è stato indispensabile ed estremamente disponibile, professionale, competente e interessato a creare qualcosa di unico. Insieme credo che abbiamo creato un’opera che ha emozionato noi e tante altre persone.

 

Come nasce il tuo Macbeth, perché si evolve in questo modo così unico avviluppato su temi musicali moderni quasi provocatoriamente ossessivi e ripetitivi?

“Il mio Macbeth è nato in me quando ero solo un bambino ma è cresciuto anno dopo anno senza che io me ne accorgessi…ho solo sentito che era il momento giusto di lasciarlo andare e di dargli vita. Probabilmente io e lui eravamo arrivati ad un equilibrio ed era pronto per poter essere condiviso. Ho iniziato a creare lasciandomi trasportare da ciò che compariva, sotto forma di immagini continue, nella mia mente. Ma dire esattamente quando questa creazione sia nata, appare davvero difficile. La musica (credo di esser diventato ancora più esigente dopo le regie di opere liriche) è un linguaggio essenziale, assolutamente non scindibile da tutto il resto, ovvero dalla fotografia, la regia, l’interpretazione, la caratterizzazione e l’ambiente. Lo spettacolo è un corpo che vive…per questo dev’essere composto in modo unico cercando qualsiasi cosa o mezzo in grado di spiegarne la natura.”


Sono molte le scene in cui il tuo estro e le tue conoscenze registiche emergono prepotentemente, in quali credi si esprima al meglio Macbeth?

“Difficile scegliere una scena. Diciamo che la scena dell’incoronazione è strutturata su linee e geometrie che mi piacciono molto mentre quella del sogno mi destabilizza con estremo piacere ogni volta.”

 

Perché la scelta dell’apposizione della corona umana durante il sogno di Macbeth, non hai temuto non capissero il tuo genere di linguaggio e la portata stessa di esso?

“Non essere capiti, o meglio che alcuni passaggi non siano capiti è una possibilità frequente in una messa in scena. Ma questo non deve mai rappresentare una preoccupazione o un limite. Come diceva il maestro Ronconi “ è più importante vedere che capire”. E io credo che sia ancor più importante domandarsi che capire o capire immediatamente. La corona umana rappresenta la riconquista, l’aver ristabilito i ruoli seppur nella sfera onirica. Non diciamo di più altrimenti non rispettiamo il concetto espresso poco fa.”

 

Perché la scelta delle tre streghe in rosso e nero, morte e passione? E perché scegliere di far gestire a loro la morte in battaglia della fazione nemica con la comparsa delle loro braccia?

“Si giusto per il rosso e il nero ma non solo…n realtà ci sono più colori nelle streghe, come ad esempio il marrone che ne dimostra la provenienza dalla terra, dal fango come ad emergere da lande sconsolate di battaglia. Più che gestire, condizionano. E’ la profezia stessa a farlo. Loro sanno, loro vedono, loro possono predire. Loro possono intervenire. La signoria di Cawdor era già decisa seppur non pronunciata. Loro decidono di incontrare Macbeth nel luogo della battaglia. Dopo la battaglia. Loro sapevano già che avrebbe vinto…era già deciso.”

 

In quale momento ti sei reso conto che stavi creando un’opera nera così profondamente innovativa nel suo rimanere aderente al classico?

“Ho sempre saputo che sarebbe stata così seppur non conoscendola fino in fondo se non durante la preparazione. Le sensazioni iniziali erano queste ma non ti chiedi come sarà ma cosa sarà. Io credo che non si possa pilotare la creazione se non in parte. Davanti ad un’opera così maestosa e immensa si può solo cercare di essere onesti con sé stessi e con l’opera senza cercare mediazioni o mezze misure. Si deve solo avere il coraggio di tirar fuori ogni immagine vista o sognata e ogni emozione immaginata o provata.”


Gli interpreti sono stati unici nell’appropriarsi del personaggio, conoscerlo e tirarne fuori luci ed oscurità, quale grado di immedesimazione c’è stato tra di loro, ed in che modo hai raggiuto questo obiettivo con loro?

“Per un attore il bisogno, la ricerca, l’esigenza della più alta immedesimazione è vitale. Le streghe grattavano con le unghie le tavole del palcoscenico durante lo spettacolo quando non erano in scena. Credo basti questo a spiegare la vita in Macbeth”.

 

Un’emozione continua, ritmo al cardiopalma e tensione al limite nel susseguirsi di ogni scena, non c’è stata una scena con minore intensità dell’altra, lo spettatore ne è stato rapito e folgorato, quasi intimidito nell’applauso per non interrompere, trafitto da ogni buio come fosse un abbandono, come si può provare tutto questo non guardando la televisione mi chiederebbe un ragazzino?

“Si può provare andando a Teatro, ovviamente non si può trovare sempre ma bisogna saper scegliere nella vita. Ogni Teatro è diverso, ogni regista è diverso, ogni interprete lo è…si può fare Teatro per simulare o per vivere. E’ bene che lo spettatore lo sappia…il Teatro non è uno ma infiniti…”

 

Ogni scena è stata un concentrato di pulsioni, passione ed istintualità, in cosa rappresentano te, quanto c’è di te e quanto è solo l’essere pertinente all’opera che hai voluto rappresentare?

“Impossibile scindere il legame che si struttura e nasce spontaneamente tra chi crea e ciò che viene creato ma è d’obbligo per un regista, a mio modesto parere, non usare l’opera per sé stessi ma utilizzare ogni parte di sé per l’opera.”

 

Lady Macbeth…degna di una nota a parte, così dura da trasportare il marito in un intento omicida e poi così passionale da abbandonarsi alla sua follia e lasciandosene trasportare, perdercisi dentro, come hai trasmesso all’interprete la dedizione, la passione per questo ruolo e l’attenzione e la cura dei suoi dettagli caratteriali?

“Non è stato così difficile perché Ramona Giraldi, come tutti gli altri interpreti, ha fatto un percorso sia personale che di gruppo nell’approfondire il proprio personaggi, quello degli altri e le dinamiche che li contraddistingueva. Ovviamente con lei, come con gli altri, ho parlato a lungo di come intendevo rendere un personaggio tanto complesso quanto affascinante come la Lady. Appassionarsi a questo personaggio non è molto difficile, vista la grandezza e la bellezza, renderlo al meglio invece è difficilissimo. E lei è stata molto brava a far spazio dentro di sé e a mettersi a completa disposizione del personaggio. Ora quando io penso alla Lady, sento la sua voce e vedo i suoi occhi. In generale mi corre l’obbligo di menzionare anche Mattia Lorenzini, Macbeth, per la sua bellissima interpretazione. Un meraviglioso Macbeth! Inoltre credo che la dinamica tra i loro due personaggi sia stato uno dei punti forti dello spettacolo.”


Le tre streghe accompagnano Lady Macbeth al parto di un feto nero, un feto abortito dal quale la protagonista tira fuori un pugnale, con il quale si dirige verso il marito, avido di potere; cos’è ciò che vuol dimostrare la LADY, l’idea del figlio morto, l’idea di un figlio mai nato, il ricordo di un feto abortito?

“Le streghe sono stata un’altra delle mie passioni più grandi. E per questo ringrazio le interpreti che hanno così ben rappresentato ciò che desideravo. Quella a cui lei fa riferimento è la scena del sogno. Il tema della corona sterile è molto forte nella dinamica della coppia e ciò che affiora nella mente di Macbeth è un’ossessione, una paura, un delirio. Il sogno che si manifesta ai suoi occhi, avviene in un momento molto delicato drammaturgicamente… Macbeth è ormai Re ma affiorano in lui angosce e fragilità già insite nella personalità ma alimentate dalla profezia sulla progenie di Banquo. Non essere padre ne mette a dura prova la virilità… e la corona paradossalmente non attenua la mancanza di paternità ma fa affiorare ancor più violenta l’insofferenza e la frustrazione.”

Un grande in bocca al lupo dalla redazione di viterbonews24 al maestro Sergio Urbani e a tutto lo staff di Macbeth per la tournèe che li vedrà impegnati dalla fine dell’estate in molti Teatri d’Italia.






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