ANNO 14 n° 111
Il giallo di Gradoli dall'allontanamento volontario all'omicidio
Il romanzo di storia vera più discusso e seguito dalle cronache viterbesi
13/05/2011 - 12:25

di Alessia Serangeli

Madre e figlia scompaiono nel nulla. E’ il 30 maggio 2009, ma la notizia inizia a circolare soltanto due giorni dopo, lunedì primo giugno, quando Paolo Esposito va alla caserma dei carabinieri per denunciare che, dal sabato precedente, non ha più notizie della sua convivente Tatiana Ceoban e della figlia 13enne Elena. Partono le ricerche, in principio piuttosto in sordina per la verità, perché la pista battuta è quella dell’allontanamento volontario.

“E’ possibile che siano tornate nel loro paese d’origine e che, presto, si rifacciano vive”, pensano gli investigatori. Sbagliando, e di grosso anche, perché da quel sabato 30 maggio, quello che sulle cronache locali ha preso cittadinanza come il “giallo di Gradoli”, è ancora oggi il caso più seguito e discusso di cui si abbia memoria, almeno nell’ultimo decennio, nel Viterbese. Da quel giorno in poi giornali, tivvù, radio e agenzie di stampa si sono occupate delle faccenda, inviando cronisti e fotoreporter a caccia di novità, interviste, verità nascoste e scoop dell’ultim’ora.

E ahivoglia se ce ne sono stati nel corso di questi due anni. La famiglia allargata e le relazioni extraconiugali - dal sapore boccaccesco persino - dei protagonisti; i filmati amatoriali a luci rosse e la scoperta che la sorella più giovane della scomparsa, Ala, se la intendeva con il cognato Esposito. Il fratello delle due moldave, trovato cadavere in un bosco del Kazakistan in circostanze misteriose; la guerra legale per ottenere l’affidamento della piccola Erika (la bambina che Esposito ha avuto sette anni fa da Tatiana), e quei diari su cui i due annotavano le loro giornate, le difficoltà di un rapporto ormai logorato, e i timori (“ho paura che Paolo possa farmi del male”, scriveva la moldava 36enne).

Da quel sabato 30 maggio di due anni fa in poi, è stato un susseguirsi di voci e pettegolezzi, dubbi e sospetti, indiscrezioni e conferme ufficiali e secche smentite, che si sono rincorsi uno dietro l’altro arricchendo questo romanzo di storia vera. E non è mancato neppure qualche consulente esoterico in cerca di pubblicità. “Sono morte tutte e due ed è stato Paolo Esposito ad ucciderle. So dove sono, non racconto balle: ho visto tutto con la radioestesia”. Così tale Mario Allocchi, conosciuto il 13 luglio 2009 a Cannicelle. Lì dove c’è la villetta dei misteri. Lì dove, quel giorno, era in corso il secondo (lunghissimo) sopralluogo dei carabinieri del Nucleo investigativo di Viterbo e del Ris di Roma.  

Cade la pista dell’allontanamento volontario. Trascorse le prime settimane dalla scomparsa, la tesi dell’allontanamento volontario inizia a farsi fin troppo debole per gli stessi inquirenti; che, nel frattempo, prendono possesso dei filmati a sfondo sessuale e dei diari, dai quali si evince chiaramente che “la famiglia del Mulino Bianco” descritta sulle prime, è soltanto uno specchietto per le allodole.

Quindi la svolta nelle indagini: l’11 giugno il blitz nella villetta a Cannicelle di proprietà di Esposito e il rinvenimento di alcune tracce ematiche, quindi il sequestro; il giorno successivo l’apertura di un fascicolo – di cui è titolare il sostituto Renzo Petroselli – da parte della Procura per sequestro di persona.

Nel frattempo sono quasi quotidiane (e notturne anche) le battute nelle campagne di Gradoli dei carabinieri della Compagnia di Tuscania (competente per territorio), e del Nucleo investigativo, che impiegano diverse unità cinofile. Nelle ricerche, in quei giorni, intervengono anche i sommozzatori dei vigili del fuoco, che prosciugano un paio di pozzi della zona. Ma delle due donne nessuna traccia.

Intanto, (è il 16 giugno), la trasmissione “Chi l’ha visto?” inizia ad occuparsi del giallo di Gradoli e la Tuscia si leva alla ribalta della cronaca nazionale. E’ proprio durante la puntata della trasmissione di Rai3 che Elena Nekifor, madre di Tania ed Ala, accusa il genero di aver ucciso la figlia e la nipote. In quei giorni, fra il Comando provinciale dei carabinieri e gli uffici della Procura c’è un via vai continuo di testimoni che vengono sentiti dal capitano Marco Ciervo e dal pm Petroselli: Esposito e i suoi genitori (Enrico e Maria), la signora Nekifor e la sorella Olga, Ala e altre “persone informate sui fatti” fanno letteralmente la spola. E la sensazione che il cerchio stia per chiudersi è fortissima.    

I carabinieri del Ris arrivano a Cannicelle. E’ un caldissimo martedì di giugno. Il 23 giugno per l’esattezza. Il sopralluogo dura più di otto ore, durante le quali i carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche ispezionano ogni angolo della villetta di Esposito: nulla viene lasciato al caso, men che meno quel sangue trovato durante il sopralluogo dell’11.

Per la rilevazione delle tracce ematiche i Ris utilizzano il Luminol, una particolare tecnica che consente di individuare residui di sangue - anche nel caso vengano lavati - semplicemente spruzzando una sostanza sulle superfici da indagare, per poi osservarle al buio cercando l’eventuale comparsa di macchie blu fluorescenti. In quella circostanza, il Luminol viene impiegato non solo all’interno, ma anche nel terreno circostante l’abitazione. (Particolare non di poco conto per intuire quale fosse la pista su cui erano già orientati gli inquirenti, nonostante procedessero ancora ufficialmente per sequestro di persona).   

L’arresto di Paolo Esposito. Sono le 7 e 30 del 1° luglio 2009 e Paolo Esposito si è appena alzato dal letto quando sente suonare il campanello. Va alla porta e si trova davanti due militari dell’Arma che gli comunicano di non essere più indagato per sequestro di persona. Quella era una bazzecola: adesso per lui l’accusa è di duplice omicidio e occultamento di cadavere. Alle 7 e 45 la telefonata agli avvocati difensori, Enrico Valentini e Mario Rosati. E un nuovo, lunghissimo interrogatorio negli uffici della Procura davanti a Petroselli, Ciervo e agli inquirenti della polizia giudiziaria.

“Hanno cambiato il capo d’imputazione: da sequestro di persona a duplice omicidio volontario e occultamento di cadavere”, spiegheranno gli avvocati all’uscita dal palazzo di giustizia viterbese. Una modifica dovuta, per i legali, “a nuove emergenze scaturite durante le indagini e, in particolare, alle analisi fatte dai Ris”. Legate, queste ultime, al ritrovamento di sangue.

Tre giorni più tardi, dopo oltre due ore di interrogatorio in carcere, il giudice per le indagini preliminari Rita Cialoni convalida il fermo dell’elettricista di Gradoli. “Pericolo di fuga e reiterazione del reato” le motivazioni del gip. 

Il secondo sopralluogo dei Ris e la sospensione della patria potestà di Esposito. Fa un caldo pazzesco, la colonnina di mercurio oscilla fra i 32 ed i 34 gradi e mezzo, e il sole picchia forte. Anche sotto quelle tute bianche che seguono da vicino gli scavi nella villetta dei misteri in località Cannicelle. E’ il 13 luglio 2009 quando la Scientifica dell’Arma torna a Gradoli perché, durante la prima ispezione del mese di giugno, una stanza era rimasta inesplorata: un ripostiglio attiguo alla cucina, il luogo in cui si sarebbe consumato il delitto vero e proprio.

Nel frattempo arrivano gli esiti dei primi rilievi tecnico-scientifici, i quali confermano che le tracce ematiche rinvenute nella villetta appartengono a Tatiana; e ad Esposito viene sospesa la patria potestà sulla piccola Erika. E’ il 22 luglio 2009 e l’elettricista inizia uno sciopero della fame in carcere che lo porterà a perdere oltre venti chili in meno di un mese. La sua protesta, tuttavia, non sortisce alcun effetto, tanto che, poco più tardi, il Tribunale per i Minorenni di Roma affiderà la bambina ad una casa famiglia di Bagnoregio, togliendo la custodia ai nonni paterni. 

Il pressing degli inquirenti su Ala Ceoban. Sempre più convinti che sia una bugiarda professionista e, allo stesso tempo, la chiave di volta per risolvere il “giallo”, iniziano le trasferte degli uomini di Ciervo in quel di Santa Fiora, il paesino in provincia di Grosseto dove la moldava lavora come badante. La giovane dal visino acqua e sapone aveva mentito tante e tante volte nel corso degli interrogatori e gli inquirenti, tabulati telefonici alla mano, lo sapevano bene. “Non ero a Cannicelle il giorno della scomparsa”, e invece era lì eccome. Ad incastrarla una telefonata che aveva fatto proprio il 30 maggio da Gradoli alla figlia dell’anziana che accudiva per riferirle che, quella sera, non sarebbe potuta rientrare per un problema di salute.   

L’arresto della giovane moldava. Il colpo di scena arriva il 5 agosto 2009, quando la Procura emette il decreto di fermo per concorso in duplice omicidio e occultamento di cadavere nei confronti di Ala Ceoban. Gli inquirenti, dopo aver lavorato a tamburo battente per oltre due mesi, ricostruiscono, tassello dopo tassello, il disegno di questo puzzle ingarbugliato. E, anche se non ci sono i corpi, né l’arma del delitto, “l’impianto accusatorio è solido, gli indizi di colpevolezza pesanti”.

Innanzitutto entrambi non hanno un alibi, e quelli che hanno addotto “sono stati smontati pezzo dopo pezzo”. Esposito dichiara che quel sabato 30 maggio aveva scaricato la posta dal suo computer: circostanza smentita dagli esami irripetibili svolti dai periti sul suo pc (dai quali, invece, salta fuori materiale pedopornografico); Ala, invece, afferma che quel giorno si trovava a Grosseto. Falso anche questo. Gli inquirenti, attraverso un’articolata attività info-investigativa, riescono infatti a scoprire che il 30 e il 31 maggio Ala è a Gradoli, ma lascia i suoi due telefoni cellulari in casa, a Santa Fiora.

Ma prima un passo indietro: dai tabulati telefonici era emerso che i due amanti si sentivano di continuo, scambiandosi una serie infinita di sms ogni giorno. E non con le schede Sim ordinarie, perché se ne erano regalate altre esclusivamente per sentirsi fra loro: quella di Ala era intestata ad Esposito, mentre quella di quest’ultimo ad una extracomunitaria rimasta sconosciuta.

I loro contatti cessano improvvisamente venerdì 29 maggio, perché lei raggiunge l’amante. E non porta con sé i due cellulari. Soltanto una dimenticanza? Potrebbe essere, ma ecco il passo falso. Proprio la sera del 30 - cioè, secondo gli inquirenti, dopo l’assassinio di Tania ed Elena – Ala fa una telefonata dal cellulare di Esposito al numero di casa dell’anziana che accudisce a Grosseto. E il giorno successivo parte da Gradoli un’altra telefonata analoga. Il 31, domenica sera, Esposito riaccompagna Ala a Santa Fiora, e il lunedì si reca dai carabinieri e denuncia – attenzione – non la scomparsa delle due donne, ma Tania per abbandono di minore. Tra i due amanti riprendono i contatti telefonici, ma il 5 giugno si interrompono nuovamente. Forse perché si accorgono di avere il fiato sul collo.

Come era stato un mese prima per Esposito, anche per Ala, il giorno successivo all'arresto, il gip Silvia Mattei avrebbe convalidato lo stato di fermo motivandolo con il pericolo di fuga. 

L’incidente probatorio sulle tracce ematiche. Il  19 agosto 2009 si apprende che il gip Rita Cialoni, riconoscendo “l’urgenza dell’incidente probatorio sul sangue rinvenuto nella villetta”, ha accolto l’istanza di Petroselli. Le operazioni peritali iniziano il 10 settembre e sono condotte dalla dottoressa Elena Pilli, antropologa molecolare dell’Università di Firenze, consulente del gip, e da Giorgio Portera, giovane antropologo molecolare anche lui, presso l’ateneo milanese, e perito incaricato dai legali di Paolo Esposito, Valentini e Rosati.

L’udienza si svolgerà l’11 dicembre nell’Aula 3 del tribunale viterbese, ma l’esito degli accertamenti lascerà aperti molti (molti) interrogativi.

Ventisette, innanzitutto, le tracce rilevate all’interno della villetta, fra la cucina, il bagno e la camera da letto di Elena. “Di queste - avrebbe spiegato la Pilli - diciassette sono evidenti tracce ematiche, mentre le altre dieci hanno dato esito negativo, perché o non sono di sangue, oppure per la scarsa quantità di dna rilevato non possono essere determinate. Delle diciassette tracce di sangue sedici possono essere attribuibili per emocompatibilità genetica a Tatiana, una ad Elena”.

Dalla perizia, inoltre, non emergono né tracce di trascinamento, né risultanze scientifiche all’ipotesi che il presunto luogo del delitto sia stato accuratamente lavato, come invece sempre sostenuto dagli inquirenti. La “mappa” del sangue, dunque, non è affatto chiara e i dubbi rimangono. Per questa ragione - evidentemente - gli avvocati della difesa chiedono un altro tipo di accertamento, oltre a quello statico già svolto dalla Pilli: la Bpa (Bloodstain Pattern Analysis), che, in termini spiccioli, non è altro che un’analisi dinamica del sangue. E che, in seguito, avrebbe svolto il superperito Luciano Garofano, consulente nominato dall’avvocato di Ala, il noto penalista romano Pierfrancesco Bruno. 

La conclusione delle indagini e i superperiti. E’ il 18 gennaio 2010 quando alle difese viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini. “Ci saremmo aspettati un prolungamento visto che stiamo parlando di due delitti”, avrebbero commentato gli avvocati, preparandosi al processo calando gli assi nella manica: la nomina di due fuoriclasse per analizzare, ancora una volta, la scena criminis. Rosati e Valentini, legali di Esposito, incaricano Giorgio Portera, ex ufficiale del Ris di Parma, impegnato nelle indagini sul caso di Elisa Claps; Bruno, per Ala Ceoban, nomina invece il generale Garofano, ex comandante del Ris di Parma: il delitto di Cogne, le stragi di Erba e Capaci fra le inchieste finite sotto la sua lente di ingrandimento. 

4 giugno 2010: parte il processo. Il palazzo di giustizia viterbese è assediato: curiosi, giornalisti, fotografi, cineoperatori attendono impazienti l’inizio del procedimento giudiziario a carico dei presunti “amanti diabolici” di Gradoli, che si aprirà con un’oretta di ritardo e che vedrà oltre duecento persone sfilare sul banco dei testimoni.

E si intuisce sin dalla prima udienza che il match tra accusa e difesa sarà durissimo. Lo scontro, come nella fase delle indagini preliminari, è ancora incentrato sulle tracce ematiche: per l’accusa il sangue è “copioso”, per il collegio difensivo si tratta di “macchie millimetriche”.

Nel corso delle varie (lunghissime) udienze, a dirla tutta, grossi colpi di scena non ce ne sono stati: novità rispetto a quanto non si fosse già sviscerato nei mesi precedenti non sono venute fuori. Durante il processo si torna a parlare delle relazioni extraconiugali, dei tabulati telefonici, delle menzogne dei due imputati, delle tracce ematiche; ma di circostanze concrete, in grado di incastrare o assolvere definitivamente i due ex amanti, niente.

Probabilmente uno dei dibattimenti più curiosi è quello del 4 dicembre, quando spunta la macabra ipotesi che Tatiana ed Elena potrebbero essere state seppellite in un bosco e mangiate dai cinghiali. E’ uno dei testimoni, il comandante dei carabinieri di Latera Claudio Stermini, a riferire che, nell'ambito delle ricerche, erano stati avvisati anche i cacciatori di cinghiale. “Li invitammo a comunicarci ogni particolare sospetto che potessero notare durante le battute di caccia”, spiega alla Corte il maresciallo. A quel punto, il pm Petroselli incalza il maresciallo, chiedendo se i cinghiali si nutrano di carne umana. Come a voler suggerire che, se davvero Tania ed Elena sono state uccise, non c'è alcuna speranza di trovare i loro corpi integri. Figurarsi, poi, se qualcuno le ha nascoste in un bosco o in campagna: gli animali selvatici potrebbero aver fatto razzia dei cadaveri. “I cinghiali mangiano persino il maiale, che appartiene alla loro stessa famiglia: è probabile che si nutrano di carne umana”, risponde Stermini.

Al di là delle fasi meramente tecniche, ciò che veramente suscita curiosità ed interesse durante il processo sono i protagonisti. Meglio: gli imputati. Ogni mossa, atteggiamento, comportamento, sguardo di Paolo ed Ala viene scrutato, esaminato: dai giudici togati e da quelli popolari; da pm e parti civili; dal pubblico e dai giornalisti che, all’indomani, avrebbero raccontato ogni minimo dettaglio ai lettori. Niente passa inosservato: la t-shirt di colore giallo che la giovane moldava indossa durante la prima udienza - decisamente troppo appariscente per la circostanza; il riso dell’elettricista di Gradoli durante i dibattimenti - a dir poco fuori luogo (in un’occasione viene ripreso addirittura dalla Corte); le occhiate che si lanciano i due ex amanti, come a volersi dire qualcosa. Tutti, ma propri tutti i particolari vengono catturati e riportati agli onori della cronaca. E ancor prima che “Quarto Grado” di Salvo Sottile andasse in onda, termini tipicamente forensi come “incidente probatorio”, indagini preliminari”, “Corte d’assise”, prendono piede nelle discussioni da bar. La capacità mediatica del giallo di Gradoli è stata ed è innegabile. 

12 maggio 2011: il rinvio della sentenza. Difficile descrivere la delusione di tutti quei giornalisti che hanno seguito il giallo di Gradoli sin dalle prime battute quando, ieri mattina, il giudice Maurizio Pacioni ha deciso di rinviare la camera di consiglio. Un’altra giornata intera (sempre che tutto proceda da copione) per conoscere il verdetto della Corte, e sapere se Ala Ceoban e Paolo Esposito sono davvero gli “amanti diabolici” descritti dalla pubblica accusa, oppure “due poveri innocenti (e pure “bamboccione” lui, ndr) che hanno mentito per paura”, come sostiene il collegio difensivo.

La Corte d’assise emette il verdetto: Paolo Esposito ed Ala Ceoban sono colpevoli. Alle 13,20 esatte del 13 maggio 2011, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, il giudice Pacioni condanna gli imputati all’ergastolo per il duplice omicidio di Tatiana ed Elena. Un rumore sordo nell’Aula 4 di via de Lellis. E un brivido lungo la schiena: di angoscia per Ala e Paolo; di malcontento per il collegio difensivo; di soddisfazione per il pm Petroselli e le parti civili. Di dubbi, forse, per chi ha assistito da spettatore al romanzo, vero, di Gradoli. Su cui c'è ancora da scrivere l’ultimo capitolo…

 





Facebook Twitter Rss