ANNO 14 n° 115
Feto nel cassonetto,10 anni alla madre
Rinviato a giudizio l'infermiere che avrebbe aiutato la giovane donna
30/09/2016 - 17:38

VITERBO - Dieci anni di condanna a Alina Elisabeta Ambrus. Un rinvio a giudizio per Graziano Scarponi. Lei, la madre 27enne che nel 2013 gettò in un cassonetto il proprio feto di 7 mesi, dopo averlo prematuramente dato alla luce con un parto indotto. Lui,  l'infermiere che, con una ricetta falsa, fornì alla giovane rumena il Cytotec, un farmaco a base di ossitocina, per indurre le doglie e le contrazioni. 

La sentenza del giudice per l'udienza preliminare Savina Poli arriva dopo cinque ore di discussione e quattro di camera di consiglio: sulla donna, irreperibile da anni ormai, grava ora una condanna per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Per l'uomo, invece, sono ancora solamente accuse da cui dovrà difendersi nel corso di un processo penale in corte d'Assise, che partirà il prossimo 20 gennaio.

È il 2 maggio 2013, quando in via Agostino Solieri viene fatta la macabra scoperta: avvolto in una busta nera dell’immondizia, tra i rifiuti, il feto.

Ventotto settimane, poco meno di un chilo di peso e una contusione alla testa, non compatibile, però, con le cause della morte. Un ematoma dovuto probabilmente all’urto con il water al momento della sua nascita, in quell’appartamento del quartiere di San Faustino, in cui la piccola ha visto la luce e anche la morte.

Morte che sarebbe avvenuta per la totale mancanza di cure specialistiche dopo il parto. A sostenerlo è il risultato di una perizia collegiale voluta dal giudice per le udienze preliminari Salvatore Fanti: secondo il team di esperti, il feto al momento del parto respirava, era vivo. Solo dopo sarebbe morto.

Ed è proprio da queste conclusioni che trae forza l’intero apparato accusatorio del pubblico ministero Franco Pacifici: per lui fin da subito si sarebbe trattato  di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dalla premeditazione. Ecco perché ha chiesto, per Alina Ambrus, il massimo della pena possibile: l'ergastolo. Una condanna poi  drasticamente ridotta a 10 anni di reclusione dal giudice Poli. 

E non c'è spazio nella sentenza per la tesi della difesa, secondo cui, per la donna, si sarebbe dovuta ipotizzare solamente l’accusa di aborto avvenuto al di fuori del termini e delle norme di legge. Nulla di più. Inoltre, al momento del parto, il feto sarebbe stato sì vivo, ma non di certo vitale. Nessuna risposta, nessuna reazione agli stimoli esterni. Nessun vagito. La madre pensava che la piccola fosse già morta, non si può parlare di omicidio.

Per il giudice, però, la ricostruzione non regge. E quindi la condanna e il rinvio a giudizio.





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