ANNO 14 n° 109
Dopo 10 anni di processo a vuoto, da Ras della ‘Ndrangheta «diventa» operatore sociale
22/09/2014 - 09:32

Il prossimo novembre saranno passati dieci anni esatti dai fatti. In un’aula del tribunale di Paola (Cs) un giudice, l’ennesimo, cercherà di capire se la persona arrestata dai carabinieri nel 2004 sia o no un ras della ’ndrangheta. Giudice, accusa, difesa e testimoni dibatteranno ancora nel primo grado di giudizio, come se fosse il primo giorno. Perché in dieci anni il processo non ha fatto un solo passo avanti. Le cronache dell’epoca raccontano di una pericolosa rete criminale che imponeva il pizzo a ogni imbarcazione che approdasse al porto di Cetraro. Un business non da poco. Lì attraccano non solo imbarcazioni turistiche in partenza e in arrivo dalle isole Eolie ma grossi pescherecci. Arrivano denunce, informative, segnalazioni di coloro che si sarebbero rifiutati di pagare il pizzo. Episodi sui quali i magistrati decidono di indagare. E Lo fanno in grande stile, quasi da film dell’azione.

 

Noleggiano una barca, una Antares 10.80, un’imbarcazione di 11 metri non di lusso ma che non passa inosservata. A bordo c’è un appuntato dei carabinieri che finge di essere un nocchiere. Il suo capitano, invece, fa la parte del ricco ingegnere mentre un carabiniere donna veste i panni dell’amante da portare a spasso. Ma non è tutto. Predispongono un sofisticato sistema di sorveglianza: telecamere, registratori, intercettazioni ambientali e telefoniche. Insomma non si bada a spese. Solo per il noleggio della barca spendono quasi 5 mila euro (compreso il carburante); 230 euro al giorno per le apparecchiature di videosorveglianza, 110 euro al giorno per le intercettazioni e poi una lunga lista di rimborsi per le spese di viaggio, manutenzione, trasferta, etc. A cui si aggiungeranno le spese processuali (per ogni testimonianza resa da un testimone non residente saranno pagati 87,72 euro al giorno; 75,00 euro il rimborso spesa giornaliero). L’operazione va a buon fine. I carabinieri arrestano una persona, Pasquale Agostino. Per gli inquirenti è l’uomo che cercavano.

Recuperiamo un vecchio video del 2004. Un entusiasta Domenico Fiordalisi, all’epoca sostituto procuratore a Paola, descrive con soddisfazione tutta l’indagine. Parla della presenza «di soggetti violenti disposti a compiere reati». Chiude l’intervista con un profetico «… questo è solo l’inizio». Ma l’inizio di cosa? Di certo non l’inizio della fine del cartello criminale a cui avevano puntato. Due giorni dopo quelle dichiarazioni l’unico arrestato viene rilasciato. Il Gip non ritiene raggiunta la gravità indiziaria, non convalida l’arresto e rigetta la richiesta di misure cautelari. Altre indagini non ne vengono fatte e non ci saranno altri imputati. Intanto il sostituto Fiordalisi nel 2006 riceve il “premio Losardo”, dedicato al segretario della Procura di Paola, Giovanni Losardo, ucciso dalla ’ndrangheta «...per le sue indagini sull’infiltrazione mafiosa nel porto di Cetraro». Poco dopo viene promosso Procuratore della Repubblica a Lanusei, in Sardegna. Fa carriera anche il capitano dei carabinieri che partecipa alle operazioni, attualmente col grado di maggiore al comando generale dei carabinieri a Roma.

 

Il processo, invece, percorre una strada diametralmente opposta. In dieci anni cambiano 5 giudici (Scognamiglio, De Magistris, Buffardo, Sommella, Grunieri). A ogni cambio del giudice è prevista la rinnovazione dibattimentale affinché il nuovo giudice possa rendersi conto dell’attività istruttoria. Si potrebbe evitare se le parti dessero il consenso alla rinnovazione solo formale del dibattimento. Ma l’occasione è troppo ghiotta per gli avvocati difensori che puntualmente la negano. Fatto sta che dopo dieci anni si sta celebrando ancora il primo grado di giudizio. Più passano gli anni e più il processo perde importanza e consistenza. Oggi il caso non è più seguito da un Pubblico ministero ma da un magistrato onorario, un Vpo (che sta per vice procuratore onorario), ossia magistrati che svolgono le funzioni del Pubblico ministero solo per delega del Procuratore. Il presunto estorsore, invece, può contare sulla difesa dell’avvocato di fiducia di Francesco Muto, meglio conosciuto come il “re del pesce”. È uno dei boss più potenti della ‘ndrangheta calabrese e dà il nome all’omonimo clan. In terra di omertà, dove nessuno vede e sente niente, l’avvocato Michele Rizzo riesce a portare in tribunale 52 testimoni a favore. Nei verbali si legge sempre la stessa identica dichiarazione. Cioè che l’imputato era lì per dare una mano, senza chiedere un euro e con grande gentilezza. Ma la pletora di testimoni ha anche un altro effetto.

 

«Ogniqualvolta manca uno solo dei testimoni, il processo deve essere rinviato. E i rinvii qui a Paola non avvengono prima di quattro o cinque mesi», dice con franchezza Rizzo. Lo stesso che in aula oggi sostiene una tesi che non fa una grinza: quello che fu considerato un pericoloso criminale è, in realtà, un operatore sociale, un volontario che correva in aiuto dei turisti in difficoltà. I soldi che gli davano i naviganti erano oboli spontanei per il servizio reso con gentilezza e professionalità. Nel dopo intervista ci confida che il reato è destinato alla prescrizione. «C’è ancora l’appello e poi la Cassazione. Il mio cliente è in una botte di ferro», ridacchia all’ingresso del tribunale di Paola. «Ma la vuole sapere la cosa paradossale?» ci chiede. Prego. «Il mio cliente non solo è stato liberato dopo appena due giorni di carcere ma oggi è tornato a lavorare esattamente dove era prima: al porto di Cetraro». La barca noleggiata dai carabinieri per incastrare l’”inquietante banda di estorsori” (valore 60- 90 mila euro) stando alla ricostruzione di un inquirente fu ritrovata bruciata nel vicino porto di Vibo Valentia non appena si venne a sapere della trappola. Ignoti i responsabili.

corriere.it






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