ANNO 14 n° 88
Bimba gettata nel cassonetto, si vuole ascoltare la madre
Parte il processo per omicidio colposo e occultamento di cadavere a carico dell'infermiere Graziano Rappuoli, chiesto l'esame di Alina Elisabeta Ambrus
25/02/2017 - 02:01

VITERBO – Feto nel cassonetto, parte il processo a carico di Graziano Rappuoli. L'infermiere viterbese dovrà rispondere in Corte d'Assise di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Secondo la procura avrebbe aiutato la 28enne romena Alina Elisabeta Ambrus, in attesa di una bambina, a indurre le contrazioni e il parto, somministrandole un farmaco a base di ossitocina. Insieme poi, si sarebbero disfatti del corpicino della piccola, gettandolo in un cassonetto.

Rinviato a giudizio lo scorso 30 settembre dal gup Savina Poli, dovrà affrontare il processo in solitaria avendo scelto il rito ordinario. Sulla donna, invece, irreperibile da anni, grava già una condanna con rito abbreviato a 10 anni di reclusione per gli stessi reati.

Ieri, per il viterbese, la prima udienza di ammissione prove: il pubblico ministero Franco Pacifici ha chiesto l'esame dell'imputato e della Ambrus, che andrà rintracciata tramite un mandato internazionale. Nonché di depositare la sentenza di condanna a carico della donna e una serie di messaggi che i due si sarebbero scambiati per accordarsi sul da fare. Ferma l'opposizione dei legali rappresentanti dell'infermiere, gli avvocati Samuele De Santis e Maria Antonietta Russo.

'La sentenza di condanna a firma del gup Poli non è ancora passata in giudicato, si tratta di un primo grado a cui abbiamo intenzione di appellarci - hanno sottolineato - è impensabile che si voglia mettere a disposizione della Corte un documento pieno di valutazioni di un altro giudicante. Per Ambrus e Rappuoli abbiamo scelto due riti differenti per evitare proprio che le due strade si potessero sovrapporre'. E quindi 'contaminare'.

Ma per la Corte è un documento utile alla ricostruzione della vicenda. E cosi, l'acquisizione, 'ai soli fini documentali', spiega.

È il 2 maggio 2013, quando in via Agostino Solieri viene fatta la macabra scoperta: avvolto in una busta nera dell'immondizia, tra i rifiuti, il feto. Ventotto settimane, poco meno di un chilo di peso e una contusione alla testa, non compatibile, però, con le cause della morte. Un ematoma dovuto probabilmente all'urto con il water al momento della sua nascita, in quell'appartamento del quartiere di San Faustino, in cui la piccola ha visto la luce e anche la morte. Morte che sarebbe avvenuta per la totale mancanza di cure specialistiche dopo il parto, così come sostenuto, in fase di udienza preliminare, dal risultato di una perizia collegiale: secondo il team di esperti, il feto al momento del parto respirava, era vivo. Solo dopo sarebbe morto.

Ed è proprio da queste conclusioni che trae forza l'intero apparato accusatorio del pubblico ministero Franco Pacifici: per lui fin da subito si sarebbe trattato di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dalla premeditazione. Ecco perché chiese, per Alina Ambrus, il massimo della pena possibile: l'ergastolo. Una condanna poi drasticamente ridotta a 10 anni di reclusione dal giudice Poli per il rito scelto.

Si tornerà in aula il prossimo 28 aprile per ascoltare i primi sei testimoni dall'accusa.





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