ANNO 14 n° 89
Attilio Manca, un mistero lungo dieci anni
Oggi a Barcellona Pozzo di Gotto gli eventi dedicati all'urologo
11/02/2014 - 00:00

di Alessia Serangeli

VITERBO – Dieci anni tondi tondi. Di presunti vuoti investigativi intervallati da tre archiviazioni. L’ultima è del 21 agosto 2013. Dieci anni di appelli accorati e disperati da parte di una mamma, ormai anziana, che chiede giustizia per suo figlio. Non si sa se la otterrà ma, almeno, nelle aule di via Falcone e Borsellino un passo avanti è stato fatto. Giusto il 3 febbraio scorso, quando il gup Franca Marinelli ha rinviato a giudizio Monica Mileti, l’unica imputata del processo sulla morte di Attilio Manca. La donna, romana , è accusata di aver ceduto al giovane urologo siciliano l’eroina che l’ha ucciso. Non risponde, però, del decesso a seguito di assunzione della droga da lei ceduta perché il reato è prescritto. Essendo trascorsi dieci anni.

Nei giorni scorsi sono state diffuse dai familiari le immagini che ritraggono il cadavere dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Ha il volto tumefatto. Perché? Non si è mai saputo. O, come sostengono i Manca, a nessuno interessò mai andare fino in fondo per scoprire la verità. “Si sono accontentati di far passare mio figlio come un drogato e sono restati sordi alle nostre richieste”, ha sempre sostenuto la signora Angela, mamma coraggio. Lei, oggi, ha settant’anni. “Non sapevo nemmeno come si accendesse un computer, ma quando ho compreso quanto fosse importante per far conoscere quello che è accaduto a mio figlio mi sono armata di pazienza e iscritta a facebook”. E oggi ha un profilo in cui sono in molti a testimoniarle affetto e solidarietà.

“Mi addormento e mi sveglio con negli occhi le immagini di mio figlio che non avrei mai voluto vedere, però era necessario che tutti vedessero e comprendessero”, ha scritto ieri sul social la signora Angela . ‘’Oggi – prosegue - sono molto emozionata perché penso a domani (oggi per i lettori, ndr), giorno del decimo anniversario dalla sua barbara uccisione, quando uscirà il bellissimo libro di Luciano Mirone ''Un suicidio di mafia'', ma penso anche all'affetto e all'amicizia del presidente dell'Anaam Stefano Tricolore De Barba e di tutti i soci; penso alla catena di solidarietà che si è formata in tutta Italia; penso a tutti gli amici, sempre più numerosi che abbracciano la nostra causa: tutto questo mi rende serena anche nel mio immenso dolore perché so che Attilio è vivo e sono tantissimi ad amarlo e a ricordarlo”.

Sempre oggi, a Barcellona Pozzo di Gotto, saranno proprio gli animatori dell’Associazione nazionale Amici di Attilio Manca ad organizzare gli eventi commemorativi in occasione del decennale della sua morte.

La manifestazione denominata “…e se Attilio fosse tuo fratello?” prevede alle ore 16.30, nella Chiesa di Santa Maria Assunta, la celebrazione di una funzione religiosa officiata da Don Marcello Cozzi, vicepresidente di Libera Nazionale, e da Don Terenzio Pastore, presidente della Commissione di Garanzia AntiRacket di Messina; ed alle ore 17.30, nella Chiesa sconsacrata di San Vito, la presentazione del volume di Luciano Mirone “Un ‘suicidio’ di mafia”.

Saranno presenti all’evento, oltre ai sindaci di Messina, Renato Accorinti, e di Barcellona Pozzo di Gotto, Maria Teresa Collica, tra gli altri il parlamentare Francesco D’Uva, il senatore Mario Michele Giarrusso, l’europarlamentare Sonia Alfano, gli scrittori Luciano Mirone, Giuseppe Lo Bianco, Luciano Armeli ed Antonio Mazzeo, i legali della famiglia Manca, Antonio Ingroia e Fabio Repici, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino; moderatrice dell’incontro la giornalista Francesca Capizzi.

Sul mistero della morte del giovane urologo siciliano sono stati scritti fiumi di inchiostro e, tra le analisi più interessanti, vale la pena riportare quella compiuta da Corrado De Rosa uscita su Narcomafie. La pubblichiamo integralmente.

«29 ottobre 2003. Il paziente Gaspare Troia è ricoverato nella stanza numero 7 della clinica Casamance di Aubagne, in Costa Azzurra. Ha un tumore alla prostata, deve essere operato. In quelle ore un giovane e brillante chirurgo italiano, con ottima conoscenza del francese, è da quelle parti: deve assistere a un intervento delicato e non riuscirà a tornare dalla famiglia in Sicilia per il ponte dei morti. Quel medico si chiama Attilio Manca, è tra i primi in Italia ad aver imparato il metodo laparoscopico per operare il cancro alla prostata: una tecnica mini-invasiva che consente di perdere poco sangue e una ripresa a tempo di record. La convalescenza di Bernardo Provenzano, alias Gaspare Troia, procede tra alti e bassi e, secondo alcuni, trascorre per qualche tempo nell’alto Lazio: tra Bagnoregio e Civitella d’Agliano. Il dottor Manca lavora a Viterbo.

Tre mesi dopo quell’intervento, la mattina del 12 febbraio 2004, Attilio non si presenta al lavoro. I colleghi lo attendono in sala operatoria e quando si rendono conto del ritardo, si preoccupano e danno l’allarme. Quando il medico del 118 raggiunge l’abitazione del chirurgo in via Santa Maria della Grotticella, trova la porta di casa chiusa, ma non a chiave. Entrando, viene investito da un caldo asfissiante provocato dal riscaldamento. Il televisore è acceso ma senza audio. Attilio Manca è in camera, privo di vita. Seminudo, indossa solo una t-shirt. Ha un testicolo gonfio e il volto tumefatto. Il medico annota che il cadavere è pieno di macchie emostatiche; dal volto, schiacciato sul materasso su cui si trova anche un fumetto sull’Olocausto, fuoriesce del sangue. Anche per terra c’è una pozza di materiale ematico. Sul suo braccio sinistro, due buchi (uno più recente dell’altro), da cui sarebbe entrata l’eroina che si sarebbe iniettato in vena. Nell’appartamento non c’è traccia della sua biancheria intima (nemmeno tra i panni sporchi), ma vengono ritrovate in cucina due siringhe con il cappuccio salva ago inserito e, stranamente, i suoi strumenti di lavoro. Stranamente, perché Attilio Manca ha l’abitudine di non portarli a casa.

Angela, Gino e Gianluca Manca, i genitori e il fratello di Attilio, ritengono che il ragazzo sia stato ucciso e che sulla sua morte sia stata costruita una messa in scena. Allora iniziano a mettere insieme tasselli. Il primo: dopo i funerali del medico, un conoscente della famiglia chiede ai genitori del giovane se per caso quest’ultimo non avesse visitato Bernardo Provenzano firmando, in questo modo, la sua condanna a morte. Il secondo: il 20 febbraio 2005, la «Gazzetta del Sud» pubblica le intercettazioni di Francesco Pastoia, dalle quali si evince che un urologo siciliano si sarebbe occupato del suo capo, Bernardo Provenzano appunto. Terzo tassello: alla famiglia torna alla memoria la telefonata di Attilio di fine ottobre 2003. Lo stesso periodo in cui il padrino si trovava in Francia, per essere operato. I familiari del dottor Manca mettono insieme queste e altre tessere di un puzzle che li induce ad accostare la morte di Viterbo a Cosa nostra e alla rete di protezione di Bernardo Provenzano. E a chiedere alla giustizia se tra i due fatti certi – il corpo riverso esanime sul letto e l’operazione del boss – ci sia un collegamento.

L’iter giudiziario diventa lungo e surreale, per il tribunale di Viterbo quel medico è morto per un mix di eroina, alcol e Valium. E per ogni contraddizione che la morte dell’urologo si trascina con sé, trova una risposta che smonta ogni supposizione. Ritenendo che gli spunti investigativi prospettati dai familiari siano fondati su illazioni e congetture.

Se Manca è in una pozza di sangue, dipende dall’edema polmonare che ha causato la sua morte. Se ha il naso fracassato, è perché ha sbattuto sul telecomando. Se suo cugino Ugo corre a chiedere il dissequestro della casa e la restituzione del cadavere senza alcuna autorizzazione, lo ha fatto perché deve sollevare i genitori del defunto da una serie di incombenze. Se la madre spiega a caldo che l’ultima volta che ha sentito il figlio è stata il giorno prima del ritrovamento del cadavere e sui tabulati telefonici quella telefonata scompare, siamo nel campo della suggestione e dei deficit di memoria dettati dalla comprensibile situazione emotiva della donna. Se Attilio, che è mancino, si inietta l’eroina nel braccio sinistro (ma la prova dell’auto-inoculazione volontaria non c’è), dipende dal fatto che è un chirurgo e che quindi deve essere per forza ambidestro. A suffragare questa tesi viene citato un semplice articolo – riportato nelle motivazioni del Gip – pubblicato dal «Corriere della sera», in cui si parla di micro-chirurgia. Se la famiglia chiede di sapere come mai su una delle siringhe trovate in casa non siano presenti impronte digitali, la cosa non è dirimente: l’accertamento sarebbe sostanzialmente inutile ai fini investigativi. Se l’unica impronta che si trova in casa è quella del cugino, risalirebbe al 15 o al 16 dicembre dell’anno precedente, a quando cioè Ugo sarebbe stato a Viterbo per farsi operare di varicocele da Attilio; e poco conta il fatto che avrebbe percorso circa duemila chilometri per affrontare un banalissimo intervento chirurgico affidandosi a un parente che considera un drogato.

Sullo sfondo di tutta la vicenda, Barcellona Pozzo di Gotto. La capitale di Cosa nostra messinese, crocevia di massoneria, servizi deviati, mafiosi e faccendieri. Il posto che per anni ha fatto da propulsore di legami tra mafiosi, poiché tra le mura del suo manicomio giudiziario venivano ricoverati i padrini che si fingevano pazzi per ottenere benefici di giustizia. La terra della latitanza di Nitto Santapaola e Gerlando Alberti junior, dell’omicidio di Beppe Alfano e del telecomando che è servito a far saltare in aria l’autostrada di Capaci. Un posto, quindi, dove Provenzano è di casa. E a cui sono riconducibili vari episodi e personaggi che hanno legami obliqui con Cosa nostra e che puntualmente compaiono nelle carte giudiziarie di questa storia.

Durante la conferenza stampa indetta dalla Procura di Viterbo l’8 giugno 2012, alla luce della quarta richiesta di archiviazione, il sostituto procuratore Renzo Petroselli e il suo capo Alberto Pazienti spiegano che Manca faceva uso di droghe. Dopo otto anni, infatti, salta fuori un esame tossicologico di un capello dell’urologo che fornirebbe la certezza che ci siano state pregresse assunzioni di sostanze stupefacenti.

Nessuna pista mafiosa dunque. Nessun collegamento con Bernardo Provenzano. Attilio Manca trattato prima come un povero tossico suicida, poi come un drogato e basta. Succede quindi – a prescindere dal fatto che la famiglia nega la familiarità del ragazzo con la droga, e a voler ragionare per assurdo – che anche un elemento, l’ennesimo che potrebbe far sorgere quantomeno il dubbio della pista mafiosa, diventa un ulteriore strumento per farla saltare. A nulla vale, infatti, il fatto che i clan preferiscono chiedere favori a chi ha un punto debole, a chi ha bisogno di qualcosa che loro possono offrire facilmente. In questo caso: la droga. E succede anche che la parola suicidio scompare dalle tesi processuali. Ma ritorna con forza sulla scena, perché qualsiasi medico – a maggior ragione se con le competenze di Manca – si sarebbe reso conto dei rischi a cui andava incontro assumendo quelle sostanze. Quindi se pure di suicidio in senso stretto non volessimo parlare, allora di equivalente suicidario dev’essersi trattato.

Il paradosso però è che, a voler fare un’autopsia psicologica di Attilio, e quindi a voler formulare ipotesi attendibili sulle dinamiche che hanno portato alla sua morte, si scoprirebbe che non c’è nessun elemento a suffragio della tesi della sua autoeliminazione. Il dottor Manca infatti amava la vita, non aveva rapporti affettivi burrascosi né aveva dato segnali che potessero lasciar intendere un rischio anti-conservativo, non ha lasciato scritti né un diario in cui avrebbe potuto riversare le proprie eventuali angosce. Chi gli voleva bene, lo ha descritto nella sua quotidianità di professionista, con una storia familiare, lavorativa e formativa senza stress particolari, con un percorso di vita e di studi brillante. Alla madre, raccontava come trascorreva le sue giornate e come immaginava il suo futuro: invitava amici a cena, programmava incontri di lavoro, sperava in tempi brevi di poter avere un figlio.

I suoi progetti di vita lasciavano intendere che non pensasse a procurarsi la morte. Eppure il 21 agosto 2013 il gip di Viterbo Salvatore Fanti ha disposto l’archiviazione delle posizioni per Ugo Manca, Angelo Porcino, Salvatore Fugazzotto, Lorenzo Mondello e Andrea Pirri, cinque (in origine erano dieci) dei sei indagati per la morte dell’urologo. E nel 2014 il processo proseguirà solo per Monica Mileti, la donna accusata di essere la pusher del dottor Attilio Manca».

E da lei si ricomincerà tutto dal principio, dal quel 12 febbraio 2004, giorno in cui la Squadra mobile dell’allora dirigente Salvatore Gava e il sostituto Renzo Petroselli, trovarono il corpo senza vita di Attilio. Il processo si aprirà il 12 giugno prossimo.





Facebook Twitter Rss