ANNO 14 n° 89
Massimiliano Capo
Proust in cucina - Pasqua a Napoli
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di Massimiliano Capo

La cosa più bella di scrivere è leggere. E inseguire, leggendo, i fili di una possibile storia da intrecciare.

Parto da qui (voi non potete vederlo ma vi assicuro che è qui con me).

Parto da un volumetto che ormai ha quarantuno anni sulle spalle e che sta lì, sullo scaffale della libreria che ho davanti agli occhi.

Si intitola Amarcord e lo hanno scritto a quattro mani Federico Fellini che dell’Amarcord cinematografico è stato anche il regista, e Tonino Guerra, poeta e scrittore, che del film è stato lo sceneggiatore.

Si apre con questa poesiola che trascrivo in italiano dall’originale in dialetto romagnolo:

Lo so, lo so, lo so,

che un uomo a cinquant’anni

ha sempre le mani pulite

e io me le lavo due o tre volte al giorno,

Ma è soltanto se mi vedo le mani sporche

che io mi ricordo

di quando ero ragazzo.

Si intitola, la poesiola, Io mi ricordo (A m’arcord) e mi piacerebbe fosse il segno, la guida, il segnavia, di questa nuova paginetta che a partire da un piatto, da una ricetta, da un profumo, da un ingrediente, proverà a raccontare una storia.

E siccome ho deciso di chiamarla, la paginetta, Proust in cucina, adesso tocca a lui.

A lui, Proust. Per i pochi di voi, cari miei venti lettori, che non sanno chi è, Proust è l’autore di un romanzone in nove volumi intitolato Alla ricerca del tempo perduto, pieno zeppo di storie, memorie, ricordi, cronache e di ogni altro ben di dio letterario, su cui si sono scornate generazioni di lettori, critici, studiosi e studenti.

E che cosa c’entra Proust con la cucina e con l’idea di raccontar storie e partire da un piatto, da una ricetta, da un profumo, da un ingrediente?

C’entra, eccome se c’entra.

Per cominciare, prendete il primo volume del romanzone e cominciate a sfogliarlo.

A pagina 55 della edizione Mondadori, tradotta magicamente da Giovanni Raboni, vi imbatterete in questa cosina qui che sunteggio per ragioni di spazio (per chi vuole leggersela tutta, e non ha il volume, gugoli ‘Proust Madeleine’ e il gioco è fatto, potenza della rete).

Ma torniamo a noi e a pagina 55: ''…quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè…mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petits Madeleines…e subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido alquale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essena preziosa: o meglio quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza''.

Di cosa parla, Proust all’inizio non sa spiegarlo neanche lui. Prova, si incarta, riprova, tenta di nuovo e alla fine, dopo un paio di pagine (il buon vecchio Proust diciamo che se la è sempre presacomodissima scrivendo) dopo un paio di pagine, dicevo, arriva qui: “e tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine cha la domenica mattina…zia Leonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio….ma quando di un lontano passato non rimane più nulla…soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo…asorreggere…l’immenso edificio del ricordo…e come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta primaindefinibiliche, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti…così ora tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito…dalla mia tazza di tè''.

Ecco cosa c’entra Proust: è tutto qui dentro. Tutto tutto. Tutta la magia della memoria e il profumo della vita.

E ora l’ultimo tassello di questo complicatissimo castello. Dopo un po’ che ci giro intorno e le leggo e le rileggo e me le immagino e ci appiccico figure, il terzo segnavia che mi voglio portar dietro in questa nuova avventura è il progetto di una mia amica (riminese come Fellini e romagnola come Guerra) che ha raccolto in un blog le memorie di suo nonno. Credo di farle una sorpresa, perché non lo ho anticipato nulla, ma le storie di Nonno Guido sono una di quelle cosine che hanno il buon sapore della vita (LE TROVATE QUI) e mi piacerebbe che questa cartellina di quel sapore sappia portarsi dietro almeno il profumo lontano.

Ecco, ora avrei dovuto scrivere di una pasqua napoletana di tanti anni fa ma lo spazio è tiranno quasi come la redattrice fashion. E allora chiudo qui e appuntamento con la storia a lunedì prossimo. La sfida è ardua ma siamo impavidi.

Buon inizio settimana.



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