ANNO 14 n° 107
Massimiliano Capo
Proust in cucina, Casatiello del mio cuor
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di Massimiliano Capo

Cominciamo dalla fine.

 

Ieri sono andato a mettere i dischi ad una festa e, apriti cielo, la pioggia  battente di questi giorni ha evitato di interromperla accompagnando gli ospiti solo al momento di uscire.

 

Quindi profluvio di tacchi infangati e di nemmeno troppo sommesse imprecazioni maschili per le sneakers da lavare.

 

E anche io, come gli altri, col mio carico di sacca e sacchetta con dentro il mac e gli altri oggettini elettronici con cui si mette la musica, mi sono fatto la strada verso il parcheggio sotto una pioggia fine e novembrina e, arrivato alla macchina, ho realizzato di dover cenare.

E allora di corsa verso il McDrive, salvezza di noi pigri e nottambuli, a comprare un menù medio col panino speciale 1955 pieno di croccante bacon e di altre non meglio identificate delizie.

 

Arrivo a casa col sacchetto marrone che fa tanto film americano di ogni tempo, mi sdraio sul divano e mangio che mi sento tipo Bob De Niro in Taxi driver, col casino tutto intorno e la tele accesasintonizzata su una replica di un programma sui mondiali di calcio, e sto lì per un po’, impietrito a guardare lo schermo che manda immagini senza audio e a mangiare e bere tè freddo al limone, con le patatine fritte che mi ungono le mani e mi addormento così, senza opporre resistenza alla stanchezza.

Non so a voi, ma a me un menu medio di McDonald all’una di notte fa un effetto che servirebbero otto Freud per spiegare le ragioni di sogni ed incubi che nemmeno Albert Hofman avrebbe saputo progettare così lisergici e stranianti.

 

E in quel casino color hamburger e mostarda mi è tornato in mente, chissà perché, il casatiello.

 

Il casatiello è una torta salata che si mangia a Pasqua e che fa parte della tradizione napoletana. E per me pasqua è il casatiello, quella ciambella di pasta di pane piena di pepe e quelle uova che si rassodano al forno a fare da guarnizione.

 

Io quando arrivava Pasqua, la festa del passaggio, mi ricordo che uscivo con la nonna ed ero bambino e volevo stare sempre con lei e con lei ho imparato tutto quello che so e ancora oggi mi manca e la penso sempre e sono ancora incazzato che se ne è andata perché fosse stato per me io la vorrei ancora qui e vederla fare la maglia e l’uncinetto alla luce della finestra socchiusa e quel raggio di sole ad illuminarle le mani veloci e sicure e quei disegni e quegli incroci e quei colori che solo la magia di una sensibilità diversa ti fanno fare e poi i pennelli, gli oli, la trementina, insomma i quadri,ma questa è un’altra storia.

E allora torniamo alla Pasqua e insieme, io e la nonna, andavamo in una piccola traversa di via Mazzini e lì, un macellaio (sempre lo stesso per anni) preparava lo strutto, che a Napoli (da dove la nonna veniva) si chiama sugna e che anche qui ogni tanto lo sento chiamare così, che poi così si chiama anche in italiano e a dirla tutta viene dal latino axŭngia, composto dei temi di axis «asse» eungĕre «ungere», propriamente l’unto adoperato per spalmare l’asse e le ruote del carro.

 

E quel macellaiodi cui non ricordo più il nome, con le sue mani esperte e quell’odore forte della lavorazione della carne, che ancora oggi sento nelle narici se ci penso, ci consegnava il preziosissimo barattolo del sacro grasso porcinoQuesto rito, ripetuto per anni, era parte fondamentale della buona riuscita della ricetta perché donava a quel pane ricco di sapore e profumi la sua morbida consistenza.

 

La nonna non sapeva cucinare, lo faceva raramente, perché acucinare erano la sorella ed il fratello che vivevano con lei e che sono stati la mia seconda nonna e il nonno che non ho mai conosciuto e che, insieme, alla cucina sopraintendevano con piglio sicuro e poteri ingrassanti inauditi.

 

Arrivati a casa, lo strutto passava di mano, e prima riposava in dispensa e quindi, all’approssimarsi della festività, andava ad aggiungersi agli altri ingredienti in quella cucina sempre odorosa, piena di piatti che sono la mia memoria e la mia nostalgia più forte. Come di ogni ricetta della tradizione, ne esistono diverse versioni che raccontano la storia privatissime di famiglie, di stanze, di profumi, di preferenze e di gusti.

 

La mia ricetta è questa (esattamente quella della nonna):

per 6 persone (io la mangio da solo):

stemperare 20 grammi di lievito di birra con un dl di acqua tiepida e un pizzico di zucchero in una ciotola, unite 50 grammi di farina setacciata e impastate finchè non avrete un panetto morbido. Copritelo con un canovaccio umido e fatelo riposare per mezz’ora. Prendete una spianatoia e disponete a fontana 550 grammi di farina. All’interno della fontana aggiungete 2 cucchiai d’olio, 150 grammi di strutto, un pizzico di sale e pepe e il panetto lievitato. Impastate bene aggiungendo ancora acqua tiepida fino ad ottenere un impasto morbido. Lavorate la pasta e quindi lasciate riposare per un’ora. Quindi stendetela, aggiungete di nuovo pepe a vostro gusto, ciccioli di maiale e mettetela in uno stampo a forma di ciambella. Inserite nell’impasto le uova col guscio (ben lavato), quindi ancora un’ora di lievitazione e poi, per lo stesso tempo, in forno a 180 gradi.

 

Buon lunedì e buon appetito.



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