ANNO 14 n° 111
Nofri: ''Vi racconto il mio calcio''
L'allenatore della Viterbese ha tenuto una lezione tecnica ad un incontro organizzato per il 50° compleanno dell'Aiac

di Eleonora Celestini

VITERBO - Cinquant'anni anni vissuti sempre sull'onda del l'emozione che solo un pallone e un campo di calcio sanno darti. L'Associazione italiana allenatori di calcio compie mezzo secolo e anche la sezione di Viterbo celebra l'importante traguardo. E lo fa organizzando per i propri tesserati una lectio magistralis tenuta da un invitato speciale, il tecnico della Viterbese Castrense che ha appena vinto il campionato di serie D, Federico Nofri Onofri. ''Abbiamo voluto organizzare un incontro per ringraziare un tecnico che, con la società della famiglia Camilli alle spalle, ha riportato la Viterbese nel calcio professionistico'' ha dichiarato il presidente dell'Aiac Viterbo, Otello Settimi, nel fare gli onori di casa.

Nella sala conferenze dell'oratorio della Mazzetta il tecnico gialloblu, accompagnato dal dg Racioppa e dall'allenatore dei portieri Gobattoni, ha partecipato all'incontro dell'Aiac insieme ad alcuni allenatori associati, svelando, a 360 gradi e senza omettere nulla, con la schiettezza e un pizzico di sfrontatezza che lo contraddistinguono, la sua idea di calcio. Che parte dagli anni come calciatore professionista, attraversa gli esordi in panchina, otto anni fa, e arriva alla recente conquista della Lega Pro. Dai tre anni al Castel Rigone di Brunello Cucinelli, tra Eccellenza e serie D ('Sono stato fortunato a vivere un'esperienza così, con un imprenditore di grande spessore e in una squadra fatta per vincere'), alla salvezza con il Todi ('Passai dal cachemire del Castel Rigone ad una squadra dove non c'era neanche l'acqua nelle borracce). Poi l'Arezzo, il Foligno, il Gavorrano, le salvezze a due giorante dalla fine e i secodni posti, fino all'arrivo, i primi di ottobre 2015, alla Viterbese.

Il resto è storia recente, recentissima. 'Una bellezza incredibile vincere qui il campionato di serie D - spiega - perché questa è una categoria molto difficile. Dopo tre anni con Cucinelli e un anno con il Comandante Piero Camilli credo che la mia mia crescita come allenatore non pesno si possa dire definitiva, ma comunque molto ricca di esperienze'. Qualcuno dalla platea fa notare che gli manca solo Zamparini adesso, e Federico Nofri sorride. Perché lui limiti non se ne pone. E anche se ancora non sa cosa gli riserverà il futuro - per quanto concerne la Viterbese, la conferma non è scontata ma se ne riparlerà dopo la poule scudetto -, la sua volontà adesso è quella di firmare un contratto per una panchina di un club professionistico. 'Ho già pronta la Montblanc - confessa sorridendo -, io voglio crederci'. E allora in bocca al lupo.

'Il calcio per me è un lavoro, una professione - dice - e ho da sempre la volontà di praticarlo in ambito professionistico. Io mi sveglio sempre presto, perché per me i sogni si coltivano al mattino, non la sera: sin dalle prime ore del giorno mi concentro nel programmare le cose, lavorando per mio obiettivo'. Il sogno proibito è la Champions League. 'Quando sento la musica della UCL la metto a palla - rivela -, credo che sia tratti di un'esperienza che per un allenatore è il top. Quando a Coverciano tre anni fa ho seguito il corso per il patentino di seconda incontrai Luciano Spalletti, ma non gli chiesi di tattica, bensì delle emozioni che si provano in certi contesti. Perché è il vivere quello che mi interessa'.

Nofri non ha l'aria del grande comunicatore, anche se parla a lungo a ruota libera, raccontando passaggi della sua esperienza prima da calciatore e poi da allenatore. Eppure in fondo comunicatore lo è, perché per lui la comunicazione è la chiave del successo di un mister. 'Chi non comunica non può fare l'allenatore, secondo me - continua -. Sapersi confrontare con gli altri è tutto, ma bisogna sempre essere corretti e leali. Per farlo però devi essere forte dentro. Serve coraggio. Le gerarchie esistono sempre e vanno rispettate, ma un mister deve trasmettere alla squadra certi principi, poi sono le persone che li sviluppano e li fanno propri, ognuno con la sua testa. Se non ce l'hai la testa non lo fai il calciatore: la tecnica non basta, devi avere anche una certa dinamicità dentro'.

Se la comunicazione conta parecchio, non di meno conta quello che lui definisce 'il contorno'. E cioè una società organizzata e uno staff all'altezza. 'Meglio un giocatore in meno ma un'organizzazione che funziona - confessa -. Ho avuto la fortuna di lavorare con Cucinelli e con Camilli, e sono state esperienze importantissime perché parliamo di società strutturate in un certo modo. Certo, a questi livelli la continua pressione che hai addosso è logorante, ma ti aiuta e ti serve da sprone verso il traguardo. Tu poi ci devi mettere del tuo e pensare sempre che l'occasione, al momento giusto, arriverà''.

Per questo motivo, secondo Nofri, un allenatore si deve far pagare bene. ''Un tecnico non può guadagnare meno dei giocatori, perché il suo compito pesa di più - spiega -. L'allenatore è il trait d'union tra i giocatori e la società, è un mestiere difficile'. E, secondo il tecnico umbro, va fatto in maniera esclusiva. 'Andrò controcorrente, ma io l'allenatore manager non lo condivido. Per me l'allenatore sta nel campo, non può essere lui a scegliere i giocatori. Qualcuno che gli piace particolarmente può chiederlo, certo, e magari te lo prendono, ma allestire la squadra sta al direttore sportivo e alla società. Perché al centro del progetto c'è solo il presidente, nessun altro'.

Però l'autonomia della panchina resta, e Federico Nofri la rivendica. 'La formazione la faccio io - dichiara -. Posso ascoltare le indicazioni e a volte accontentare senza particolari affanni certe richieste, ma le partite le vinci e le perdi tu allenatore che fai le scelte. Puoi ascoltare il parere di chi stimi, ma alla fine sei tu a decidere. Ecco perché dico che per fare il tecnico ci vuole coraggio: non si deve mai perdere di credibilità o di integrità. Bisogna essere coerenti con le proprie scelte'. E qui torna la centralità della comunicazione, soprattutto quando devi fare i conti con la gestione di un ampio parco giocatori. 'Ci devi parlare con loro, li devi rendere partecipi delle decisioni, devi essere sempre chiaro - aggiunge -. Ai giocatori non si fanno mai promesse, perché tutti non si possono accontentare. Però tutti in settimana vanno fatti giocare, perché sì, le gerarchie ci sono, sette o otto elementi giocano sempre, ma ogni componente della rosa deve avere la possibilità di farsi vedere e magari di catturare la mia attenzione, mettendomi la pulce nell'orecchio e qualche dubbio su eventuali cambi'. Schiettezza e sincerità fanno il resto. 'Apprezzo un giocatore vivo, con cui c'è confronto - aggiunge -. Magari qualche volta mi ci mandi pure a quel paese, ma almeno le cose ce le diciamo in faccia. Con qualcuno devo aspettare il momento giusto per parlare, con qualcun altro invece le cose le puoi dire subito. La ricerca di equilibrio non è facile, ma un allenatore non è mai un dittatore, non va mai allo scontro ma si deve far rispettare. E se ti comporti bene i giocatori, che non sono stupidi, ti rispettano. Il gruppo lo forma l'allenatore, perché ti dà i principi. E ti conquista il cuore'.

Tra il tiki taka del Barca e la grinta dell'Atletico Madrid, Federico Nofri sa perfettamente quale modello scegliere. 'Non mi piace il calcio del Barcellona perché sono più per l'attacco diretto, aggressivo - confessa -, ma in ogni caso nel calcio di oggi conta correre più degli altri. Oggigiorno il calcio è dinamico, se non corri non ci fai nulla. E per correre ti devi allenare: la scorsa settimana il Siracusa ha festeggiato fino a giovedì e poi domenica ha preso 4 gol in pochi minuti, anche se è una squadra forte come la nostra. Allenarsi è fondamentale. È l'atteggiamento che fa la differenza - conclude -: la Juve vince per questo motivo, l'Atletico Madrid anche. Perché per loro ogni pallone è sempre come se fosse l'ultimo'.  



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