ANNO 14 n° 89
Andrea Bentivegna
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Un viterbese a NY, Coney Island world
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di Andrea Bentivegna

NEW YORK - New York è un posto di mare, spesso lo si dimentica immaginando una selva di grattacieli, questa invece città è circondata ovunque d'acqua, e mare a New York significa soprattutto Coney Island.

Storicamente e geograficamente questo lembo di terra è stato il primo mare della Grande Mela, da sempre è il luogo dello svago dei newyorkesi. Qui nacque nel 1895 il primo Luna Park della storia e da allora i parchi giochi sono entrati stabilmente nello scenario del posto.

Si arriva in riva al mare con la metropolitana direttamente da Manhattan e non appena si esce dalla stazione si capisce di essere in un altro mondo, ancora una volta.

Di fronte la prima delle attrazioni del posto, apparentemente un fast food ma in realtà un pezzo di America, si tratta di Nathan's il ''ristorante'' che nel 1916 ha inventato l'hotdog. Ovviamente il fatto viene celebrato direttamente sulla facciata dell'edificio.

Qui ogni anno va in scena la gara degli hotdog e un enorme tabellone luminoso conta i giorni che ci separano da questo imperdibile evento. Per i talentuosi della disciplina lo stesso tabellone ricorda il record da battere al momento si attesta a 45 hotdog per le ''signore'' e ben 69 per gli uomini.

Poco più in là quello che dalle nostre parti sarebbe definito lungomare e che qui diventa una Disneyland, una lunga promenade di giostre, montagne russe, ruote panoramiche e ovviamente gli immancabili ristoranti.

Sull'altro lato la spiaggia, che non sarebbe nemmeno bruttissima, con una sabbia fina e chiara ma avvicinandosi al mare, o meglio l'oceano, scopro di essere piuttosto a Varanasi: un folla di persone, spesso con indosso parei o t-shirt che si bagna in un acqua marroncina davvero poco invitante che ricorda quella del Gange.

Ma, essendo in America, è il pranzo il momento culminante della giornata, il motivo per cui la gente viene qui e ovviamente non ha nulla a che vedere con la nostra concezione di ristorante in riva al mare.

Una interminabile sequenza di fastfood attorno ai quali si accalca una folla difficilmente immaginabile e l'aria che si impregna dell'odore dell'olio solare che ricopre la pelle dei famelici bagnati e dell'olio per friggere che abbonda oltre i banconi, celebrando l'aspetto unguente di questo luogo.

Per me due hotdog e una coca-cola. Un'ordinazione che alla cassa viene commentata con un sguardo di commiserazione per la totale assenza di qualcosa di fritto nel mio piatto, ma la dieta impone dei sacrifici.

Sopravvissuto al pranzo non ho il coraggio di tornare in spiaggia, sarebbe troppo, forse anche fatale, e così mi aggiro tra le giostre osservando le persone, i vacanzieri, tipicamente americani, e quelli del posto, tipicamente russi e quasi tutti con facce poco raccomandabili. Questa è Coney Island affascinante e contraddittoria, finta, fintissima e per questo autenticamente americana e quindi globale, del resto un graffito su un muro riporta questa citazione: ''If Paris is France, then Coney Island, between June and September, is the world'', George C. Tilyou.

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